Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Con questo film Haneke si conferma uno degli Autori europei più interessanti dell'ultimo decennio. E' un'opera che fa un po' il punto della situazione riguardo alla poetica dell'austriaco, ricapitolandone e approfondendone le tematiche portanti: il rapporto fra realtà e mezzi di riproduzione della stessa; il rapporto fra Occidente e immigrazione; l'indecifrabilità del reale scaturita dall'impossibilità di decodificarne i segni; l'insormontabile muro che si viene a creare fra due soggetti comunicanti. Il tema del rapporto fra borghesia europea e mondo arabo (più in generale, fra bianchi e resto del mondo) viene anticipato da un paio di sequenze nella prima parte del film, quando il frastornato protagonista (un indimenticabile Daniel Auteuil) minaccia un ciclista africano e poi quando ospita a cena vari amici, tra cui una ragazza di colore alla quale nessuno praticamente rivolge mai la parola. Man mano che il film procede, entrano in scena i fantasmi del passato colonialista francese, la questione algerina, rimossa dall’intellighenzia parigina di oggi (i personaggi lavorano nel settore televisivo, editoriale, culturale). E con un colpo di genio, Haneke riesce ad allargare la prospettiva su una scala globale e contemporanea, inserendo un servizio di Euronews relativo agli attentati in Medio Oriente (la vicenda dei militari italiani a Nassirya): è solo un attimo, qualche secondo di reportage, ma dà un senso all’intero film. Al tema etnico-politico si intreccia in maniera enigmatica quello della riproduzione della realtà, lasciando spazio come sempre alle interpretazioni più svariate. In estrema sintesi, penso che i video (così come i disegni) ricevuti dal protagonista siano il prodotto della sua coscienza (sineddoche di quella dell’intero Occidente): è la sua coscienza a produrre quelle immagini. Lo dimostra anche un particolare a mio parere significativo: quei video non sono in digitale, ma il cassetta (come se venissero da un’altra epoca, quella della sua infanzia). Inoltre, sul lavoro, il protagonista non è solo un conduttore televisivo, ma anche un “manipolatore di immagini” (si veda la sequenza in cui smonta e rimonta una sua trasmissione): ciò testimonierebbe la sua attitudine a proiettare nel mezzo audio-visivo la propria identità. La parte più irrisolta del film riguarda forse il personaggio del figlio, anche se l’ultima inquadratura potrebbe rappresentare una chiave di lettura a ritroso: un’immagine fissa sull’edificio scolastico (moderno orfanotrofio?), che fa seguito al sogno/ricordo con cui il protagosita osserva, da debita distanza, il momento in cui Rashid fu portato via. Il significato è ambiguo: potrebbe voler dire che le colpe dei padri ricadono inesorabilmente sui figli, senza possibilità di rompere la catena; ma potrebbe anche testimoniare la presa di distanza dal proprio passato, dalle proprie responsabilità, dalle proprie colpe. E il senso di colpa, tanto incombente quanto difficilmente identificabile, è forse il tema portante dell’opera. Forse il discorso sui media, sui conflitti razziali e familiari, sull’incomprensibilità del reale, sulla difficoltà di comunicazione verte dritto a quel nocciolo: la coscienza sporca dell’Occidente. Credo che sia l’unico film di Haneke in cui sia presente una componente esplicitamente onirica (anche se, di fatto, tutto il film è come un incubo ad occhi aperti). Almeno due sequenze agghiaccianti: lo sgozzamento del pollo; il suicidio di Rashid. Un po’ in ombra la Binoche; impagabile invece, come sempre, la Girardot. Tecnicamente, il montaggio brusco tipico del cinema di Haneke raggiunge qui il suo vertice espressivo.
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