Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
Ancora i personaggi ripresi di spalla, ma con in groppa un mare di guai. Gli stessi motorini de La promessa, ma carichi di ben altri pesi. Si tratta dell’inconfondibile stile dei fratelli Dardenne, capaci di affidare ogni volta la responsabilità della sofferenza fisica (non solo degli occhi) agli spettatori.
Chi è l’infante, l’immaturo, l’ingenuo, a cui fa riferimento lo stesso titolo del film non è facile stabilirlo.
La storia è quella di Bruno, giovane spiantato, senza casa e senza lavoro, che ha deciso di recidere per sempre il cordone vitale con sua madre. Sopravvive facendo piccoli furti e organizzando attività illecite. La sua ragazza ha avuto un figlio da lui, ma Bruno non è in grado di capire cosa voglia dire essere padre. Così, all’insaputa della sua compagna, decide di vendere il bambino a pericolosi criminali che gestiscono il racket delle adozioni illegali. Questo gesto sconsiderato farà ammalare la sua ragazza, così Bruno deciderà di recuperare il bambino, ma la situazione si farà complicatissima e i problemi diventeranno sempre più gravi.
E’ un cinema che riflette sulla paternità quello di questi ultimi mesi (Brocken Flower, The Big White, La marcia dei pinguini), ma a proposito di L’enfant si tratta di una paternità realmente vissuta, sebbene monca. Dai movimenti di macchina nevrotici che ben rendono ciò che Bruno avverte nella sua pancia, alla fotografia sgranata, insieme ad una recitazione assolutamente naturalistica, fanno di questo film la bellezza del suo esserci. Eppure si tratta di storie abusate dagli stessi registi belgi, ma anche e soprattutto da Loach, oltre che dagli altri fratelli italiani Frazzi (Certi bambini), ma i Dardenne hanno un modo di raccontare che lascia il segno. In genere si tratta sempre di buchi. Allo stomaco.
E’ l’essenzialità, l’assoluta mancanza di qualsiasi musica (intesa non necessariamente come colonna sonora, ma come armonia, in genere), la forza espressiva, che ci pongono dinanzi ad un’immagine di mondo infante e sempre più privo di sicurezza, già di per se incontrati in altri capolavori dei registi: La promesse, Rosetta, Il figlio. Non sarà un caso che per ben due volte hanno vinto la Palma d’Oro a Cannes. E non si tratta, a detta di alcuni critici accomodanti, del fatto che “dal punto di vista formale sembra quasi che i registi de La Promesse facciano in realtà sempre lo stesso film”, si tratta, invece, dell’esigenza di chi continua a credere che il cinema non è soltanto evasione. In fondo quella raccontata dai fratelli Dardenne è la vera icona della “sacra famiglia” che ormai è divenuta un clichè non solo nell’immaginario di alcuni, ma per l’intera collettività. Un sacro che è tale perché sa osteggiare la santità a tutti i costi di padri e madri costretti alla disciplina del lavoro. Qui, invece, vi è la ripresa in diretta di tutto il dolore che può provenire da una società che ormai ha scelto la sterilità piuttosto che la genitorialità a tutti i costi. Tra l’altro la grandezza dei registi sta proprio nel loro privarsi di qualsiasi forma di giudizio, il loro interesse è semplicemente quello di sbatterci il mostro in prima pagina, perché nessuno possa dire “io non sapevo”. In ciò consiste, quindi, la sacralità del cinema dei Dardenne: nel ripercorrere le stesse pagine dell’uomo del Vangelo che un giorno raccontò la Parabola dell’”ero incarcerato e non mi siete venuti a trovare, nudo e non mi avete vestito, affamato e non mi avete sfamato…”. Solo che la loro non è parabola, ma realtà, quella nuda e cruda per la quale varrebbe ancora la pena “sporcare” tanta di quell’inutile celluloide che molte volte ci costringono a vedere in sala.
Giancarlo Visitilli
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta