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A History of Violence

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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La recensione su A History of Violence

di FilmTv Rivista
8 stelle

Un uomo tranquillo, Tom Stall. Buon padre di famiglia, ottimo marito, gran lavoratore. pare di vederlo un po’ piÙ giovane con il giubbotto da baseball modello Richie Cunningham... Quando sventa una rapina, ammazzando alla velocità della luce i due banditi, la sua immagine cambia, sbiadisce, si dissolve in quella di un eroe. Oppure di un killer. Una banda di feroci criminali lo perseguita, la moglie non lo guarda più con gli occhi di prima, persino il figlio ha una brutta sensazione. E il mondo crolla. Nuovo film di David Cronenberg, liberamente tratto da una graphic novel di John Wagner e Vince Locke. Se dell’opera precedente il regista canadese flaubertianamente diceva «Spider sono io!», questa volta fa un passo indietro per guardare il mondo da un oblò, quello della macchina da presa. La sua finestra si apre sul cortile al di là della frontiera: gli Stati Uniti. Che nell’ambito di un’unica matrice anglofona tra cultura canadese e statunitense ci sia un abisso lo ricordava Michael Moore in Bowling a Columbine, quindi i “distinguo” sono più che pertinenti. Cronenberg fa i conti prima di tutto con generi non suoi ma “loro”: il western, esplicitamente citato nella scena della rapina al saloon; e il noir, con i fantasmi di un passato che ritorna e che imprigiona inesorabile alle catene della colpa. Il collante fra western e nero è cronenberghiano al centomila per cento, dato che A History of Violence, in seconda lettura, è l’ennesimo mélo, un Inseparabili in un corpo solo dove si agitano mostri rimossi e demoni sotto la pelle. A sbattersi come una orrenda creatura lovecraftiana nell’inconscio di una nazione che ancora parla di destino manifesto quando esporta la democrazia con le bombe al fosforo, è l’”oggetto” del desiderio del film: la violenza. Tom si illude di costruire intorno a sé il mondo perfetto, impermeabile a qualunque contaminazione dell’altro (i banditi, i gangster, la minaccia che viene da fuori) e Cronenberg fa quello che ha sempre fatto. Distrugge da dentro. La mutazione di Tom non lo protegge dalla violenza, la quale, anche se inevitabile come nel suo caso, ti si ritorce contro. La violenza fa già parte del suo (del “loro”, forse del “nostro”) DNA, quindi che ci si cambi i connotati come in Dark Passage o si scappi su Marte, non c’è niente da fare. In questo senso il film fa i conti soprattutto con la cultura Usa, quella espansiva e pionieristica, quella delle “hands that built America” di Gangs of New York. Cronenberg si toglie un altro sassolino, perché A History of Violence, anche in virtù dell’umorismo nero che lo pervade, è un film post-pulp. La rappresentazione così estrema della brutalità è esplicitamente anti-tarantiniana (non è un mistero che il regista detesti il cinema di Quentin) perché mai “estetizzante” o cartoonistica, e invece rozza e feroce fino al parossismo. La violenza è disturbante e come tale va descritta. Poi è chiaro che dietro ai film di Tarantino ci sia dell’altro, ma è altresì evidente che Cronenberg prenda le distanze dai meccanismi di spettacolarizzazione così tipici della Hollywood degli ultimi quindici anni, nelle sue pratiche “alte” o “basse”. Densissimo di significati, A History of Violence è soprattutto molto divertente, come se il gioco con i generi avesse addirittura arricchito la poetica del nostro. Bravissimi tutti gli attori, da Viggo Mortensen (il diavolo, probabilmente) a Maria Bello (una sorpresa, per chi non è assiduo di E.R.), con una menzione speciale per lo sfregiatissimo e sublime Ed Harris.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 51 del 2005

Autore: Mauro Gervasini

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