Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film
"Bere quando non si ha sete, mangiare quando non si ha fame e far l'amore quando non si ha voglia: è proprio questo che distingue gli uomini dalle bestie, no?".
[Vittorio Caprioli a Vincenzo Crocitti]
Avere vent'anni è un film indifendibile? Vale la pena rivalutarlo o è preferibile tirare dritto di fronte alla sequela di sconcertanti banalità che sfilano senza ritegno sullo schermo? La risposta non è così scontata e, forse, neanche tanto semplice da articolare. Però, con molta pazienza e senza alcuna presunzione, è possibile discuterne. Perchè, nonostante il rozzo pressappochismo di molte soluzioni drammaturgiche adottate da Di Leo (e le tribolazioni produttive), qualcosa di più sottile, perverso e, in definitiva, vitale serpeggia inquietantemente tra le pieghe del film. Capolavoro, allora? Non scherziamo... Però un tentativo di revisione critica del film non è pratica così peregrina. Proviamoci, almeno...
Il prologo si apre sulle immagini dell'incontro su una spiaggia di Lia (Gloria Guida) e Tina (Lilli Carati), decisamente insoddisfatte dopo una notte di bagordi con una comitiva di amici ("Balli di gruppo, discorsi di gruppo, noia di gruppo, bagni di gruppo e non si scopava mai"): non hanno niente da fare, ma sono "giovani, belle e incazzate", come ripeteranno (odiosamente) fino allo sfinimento per l'intera durata del film. Titoli di testa: in colonna sonora Gloria Guida canta Avere vent'anni, programmatica e funerea title track scritta dallo stesso Di Leo insieme a Silvano Spadaccino:
Come è triste aver vent'anni,
tra il proibito e l'illusione,
scoprire che la vita il tempo peggiorerà.
L'entusiasmo dei vent'anni
stai attento a come vivi,
ormai non c'è altro da credere
che non bruci in un momento.
Non c'è più un solo rigo nel copione della vita,
ma pagine bianche che il caso imbratterà.
Come è triste aver vent'anni...
Al termine dei titoli una didascalia ("Avevo vent'anni... Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita"), citazione da Aden, Arabia del filosofo e scrittore Paul Nizan, compagno di liceo, oltre che amico, di Jean-Paul Sartre e fervente comunista transalpino (salvo poi allontanarsi dal partito dopo la firma del patto Ribbentrop-Molotov nel 1939 e morire in battaglia durante la Seconda Guerra mondiale).
Lia e Tina arrivano a Roma, non hanno un soldo in tasca ma sono sfrontate e senza pudori: dopo aver saccheggiato un supermercato, raggiungono, in cerca di un alloggio, una comune ("ndo stanno tutti quei froci, mignottelle e drogati"), gestita dal Nazariota (Vittorio Caprioli), losco "santone" napoletano. La comune, alle cui pareti risaltano poster e manifesti (Marx e Einstein, Giovanni XXIII e Kennedy, Lucio Dalla e gli Schola Cantorum, Stefano Rosso, Mia Martini, Alain Delon, Rino Gaetano, Renzo Zenobi), slogan ("Attenzione, gli imbecilli ci guardano", "Dopo Marx...aprile...il 18", "Le droghe ci annoiano con i loro paradisi... Noi non viviamo in un secolo di paradisi") e graffiti, è popolata da una fauna eterogenea di giovani spiantati, tra drogati, la ragazza madre (tre gemelli) Patrizia (Daniela Doria), l'inquietante mimo Argiumas (Leopoldo Mastelloni), che "sono tre mesi che non mangia, non beve e non dorme: è come se non ci fosse" (ma osserva tutto...), lo spavaldo "Riccioletto" (Vincenzo Crocitti, doppiato da Ferruccio Amendola), che accoglie Lia e Tina con veementi avances ("Mo' perchè voi me vedete così, ma...a pischelle', io so' 'na potenza! L'abito nun fa mica er monaco e si nun ce credete, provateme!"), il tossico adone Rico (Ray Lovelock), ex-insegnante borghese ottenebrato dagli stupefacenti, e poi, ovviamente, il Nazariota, che saluta chiunque lo incroci a colpi di proditori "Pace e male" e sollecita le due ragazze a lasciarsi andare al più presto ai piaceri del sesso ("Ci vogliamo mettere in testa che nella comune si comunica? E che se uno vuole comunicare bisogna accontentarlo? E che cazzo, un po' di comprensione, no?"). Prima sequenza cult, con Lilli Carati in mutande, camiciona bianca e bombetta alla Charlie Chaplin che, girovagando annoiata per le stanze e i corridoi della comune in cerca di distrazioni sessuali, apre la porta del bagno e trova Crocitti seduto sul water che legge il giornale e la esorta, durante l'ennesima discussione tra i due, a farsi una cultura:
"Ah, eccolo qui! Ci avrei giurato che, malgrado la porta aperta, se c'era qualcuno questo eri tu".
"Che sei sessuofoba?".
"Sessuoche?".
"Conosci Wilhelm Reich?".
"Sì, e chi è, un cantante?".
"Uno scrittore. Hai letto 'La rivoluzione sessuale'?".
"Sì, io l'ho fatta!".
"E con chi? Istruiscete...".
Nel frattempo Tina riesce ad appagare la propria fame di sesso prima con Rico (mentre la colonna sonora diffonde l'irresistibile Ti voglio cantata da Ornella Vanoni, che ritorna anche nella sequenza hot tra Lilli Carati e Gloria Guida con un altro brano, la splendida Noi), poi, insieme a Lia, con due giovani sbarbatelli un po' troppo "frettolosi" (tanto che le due amiche si vedranno costrette a "consolarsi" tra di loro).
Nella comune si installano, poi, un regista con la sua troupe per realizzare una docu-fiction sui malesseri giovanili, "un'inchiesta analitica sui rapporti umani, sulle esigenze di libertà assoluta dell'individuo". Si tratta della consueta intrusione metafilmica che Di Leo dispensa frequentemente nelle sue opere (dall'incipit di Il boss al set cinematografico, capeggiato dallo stesso Di Leo, incrociato sulle strade di Locarno dal fuggitivo Nick Hezard in Gli amici di Nick Hezard): il regista intervista Lia e Tina, le lampade e le cineprese della troupe al lavoro ("la morte al lavoro": prima, funesta anticipazione della sorte che toccherà alle due ragazze, in aggiunta agli sguardi enigmatici ed inquietanti con cui il mimo Argiumas le scruta mentre appagano le proprie brame di lussuria) si affiancano ai movimenti circolari e ondeggianti della macchina da presa a spalla di Di Leo, che accerchiano ed incalzano le due ragazze per carpirne (o dissimularne...) le confessioni più intime e veritiere possibili. "Motore! Azione!" e Lia e Tina si scatenano: è una sequenza stilisticamente raffinata e suggestiva, che gioca con perfida ironia sulla banalità dei dialoghi. Lia e Tina rappresentano due simboli allegorici, sono le vittime sacrificali di un "qualcos'altro" che Di Leo non ha ancora dichiarato palesemente ma che inizia ad intravedersi: Tina conclude la sua confessione con un programmatico "Il sesso? Per me è importante. Anzi, è importantissimo! Non è che non ne posso fare a meno, ma penso che sia una cosa che mi spetta. E, se mi spetta, io la voglio: è chiaro?", poi il regista interviene direttamente arringando i partecipanti. Ne ascoltiamo soltanto il "promettente" abbrivio: "Come certo saprete, tutte le teologie e le ideologie teorizzate dall'uomo attraverso i secoli sono state fallimentari. Ma la situazione è diventata insostenibile da quando cristianesimo, marxismo e la psicanalisi hanno determinato condizioni ambientali e personali schizofrenogene per tutti". L'inchiesta si conclude con l'esibizione di tre "attrici femministe", che leggono alcuni brani dal libro-manifesto SCUM di Valerie Solanas: "Un bel dì, a causa di una mutazione genetica, venne al mondo una femmina sbagliata, un morto ambulante, un essere tarato ed emotivamente storpio. Egocentrico, subnormale, ossessionato dalla propria sessualità, consapevole della propria bassezza, smanioso di nascondere la propria impotenza nel lavoro e nella guerra, in realtà inadatto perchè privo della necessaria aggressività, per quanto, come sempre, cialtronescamente se ne ammanti. Una mezza calzetta affetta da una femminilità malaticcia, che poi deride e disprezza nelle donne: questo è l'uomo. L'uomo, l'uomo, l'uomo, l'uomo: un aborto da eliminare!". Conclusa la lettura, Crocitti commenta quanto ascoltato con Patrizia, la madre dei tre gemelli, altra sequenza cult, con un'esilarante gag di Caprioli che durante il dialogo tra i due si alza e se ne va:
"Il femminismo è una cosa troppo seria per farlo fa' alle femministe. Tu, superfemminista, che ne pensi de 'sti matriarcati?".
"Io penso che, se fossi Ulrike Meinhof, non lascerei Andreas Baader per sentire la Solanas. E poi, vedi, essere tutte donne significa che potrei avere al mio fianco Jacqueline Kennedy al posto di Guevara, mi capisci?".
"Jacqueline Kennedy l'ha detto, Guevara pure, ma 'sto Baader Meinhof ma chi cazzo è?".
Per guadagnarsi qualche lira, Lia e Tina si disimpegnano vendendo enciclopedie per conto del Nazariota. Altra scena (s)cult e altro indizio su quel "qualcos'altro": Lilli Carati dal macellaio Meniconi, che accetta di pagare cinquecentomila lire l'enciclopedia ("So' quei libri che avemo visto la pubblicità sul furgone a Ostia e poi alla tv") per regalarla al figlio ebete: "Sei contento Enriche'? Così te impari la cultura".
E poi, finalmente, LA sequenza cult del film, in casa del professor Affatati (Daniele Vargas), che acquista l'enciclopedia e seduce una travolgente ed "eccitatissima" Lilli Carati: nella sublime causticità dei dialoghi si palesano i bersagli e le intenzioni di Di Leo, le chiavi di lettura si spostano, le carte in tavola esibite mostrano finalmente quel sottotesto allegorico (il "qualcos'altro") che ribolliva sin dall'inizio, quando con crescente fastidio si assisteva alle trivialità, alla raggelante banalità di situazioni e personaggi, alle rozze battutacce da caserma che accompagnavano le evoluzioni della vicenda. Avere vent'anni è un film pieno di difetti che, però, sceglie di abbracciare in toto un'estetica per demolirla dal suo interno, costretto, quindi, ad accoglierne forme e linguaggio per calarsi nel fondo del baratro e metterlo a ferro e fuoco: la sceneggiatura (firmata da Di Leo) è chirurgicamente millimetrica (ed esemplare) nell'appiattire le psicologie, nel ridurre a simboli o macchiette ogni personaggio, nel seminare brevi, folgoranti squarci di sprezzante sarcasmo per astrarre quei simboli dalla penosità del contesto generale, analizzarli sotto la lente deformata dell'estremismo trash, isolarne i germi patogeni e poi distruggere tutto: la morte, appunto, al lavoro. LA scena cult, si diceva:
"Devo ammettere che fa piacere vedere una ragazza della sua età già impegnata con la cultura".
"Sì, me lo diceva sempre anche il mio papà, ne è orgoglioso".
"E ha ragione, specialmente di questi tempi, quando le sue coetanee, mi scusi, ma sono tutte delle povere sbandate".
"Lo so, me lo dice sempre anche il mio confessore".
"Brava! Vedo che lei ha fatto delle scelte oculate, brava! Beh, l'opera è fatta bene, la prendo senz'altro. Anche se non sono perfettamente d'accordo con i collaboratori per la filologia romanza: sa, ho dedicato gran parte della mia vita a questo argomento, numerosissime pubblicazioni".
"Lei è uno scrittore?".
"No, no, scrittore è una parola un po'... Diciamo saggista, piuttosto".
"A me gli uomini di cultura mi affascinano".
"Ma è la cultura che è di per se stessa affascinante".
"È lei affascinante: così colto, così padrone di sè... Sta guardando i miei pantaloni? Mamma dice che mi stanno bene".
"Non dico di no, le stanno benissimo. Ma, vede, io sono uno di quelli che considerano una donna in pantaloni leggermente innaturale".
"Lei pensa?".
"Vede, li trovo...come dire...un poco inverecondi. Absit iniuria, naturalmente".
"Lei crede?".
"Beh, probabilmente sono pratici: per una giovane donna come lei, abituata alla cultura, alla circolazione, appunto, delle idee...".
"La prego, continui! Ogni volta che dice la parola cultura mi fa venire i brividi".
"Cultura? Mia cara...cultura, cultura... Lo sa che lei mi ricorda il personaggio di Ottilia? Eh, caro, grande Wolfgang... Goethe, naturalmente".
Lilli Carati si ciba avidamente delle parole del professore, si sbottona la camicetta, inizia ad accarezzarsi:
"Io ritengo, anzi, che tutti i grandi geni abbiano dato vita a personaggi femminili capaci...capaci di sublimare il loro essere, la loro sensualità proprio attraverso la cultura. Vede, ritengo che una grande carica romantica possa supplire in qualche modo...".
"E che supplisce?".
"Eh?".
"Non supplisce... Ah, mi firma l'assegno e il contratto?".
"L'assegno? Subito! L'assegno...".
Poi la mano di Lilli, all'acme del desiderio, si insinua dentro i pantaloni alla ricerca dell'estasi, mentre il professore continua a parlare:
"Vede, mia cara, come le dicevo, la cultura...la cultura è...".
"Sì, dica cultura...".
"Cultura!".
"Oh, sì, ancora...".
"Cultura...".
"Sì...".
"Signorina, guardi che, se lei volesse...".
"Dica cultura!".
"Cultura! Io sarei felicissimo di...".
"Io sono felice".
"In due si è sempre più felici".
"Dica cultura...".
"Cultura!".
"Cultura...".
"Cultura!".
"Cultura...".
"Cultura!".
"Aaaaah...".
Fin qui la "commedia(ccia)". Poi, all'improvviso, il caos: la polizia irrompe nella comune per una retata antidroga, arrestando tutti gli occupanti. Li interroga il commissario Zamboni (Giorgio Bracardi), violento, irascibile e fascistoide. Esemplare, nella constatazione del grado zero di progresso negli italici lati oscuri della lotta alla criminalità (che Di Leo aveva già esaltantemente illustrato e denunciato nei suoi magnifici noir "poliziotteschi"), l'interrogatorio di Rico:
"Come ti paghi la droga?".
"Me la offrono".
"La droga costa".
"Ovvio".
"Quelli che ti forniscono la droga, come la rimediano? Chi sono gli spacciatori?".
"Gli spacciatori li conoscono tutti: li conosco io, li conoscono quelli che me la offrono e li conoscete pure voi. Li conoscete benissimo eppure non fate niente. Non dico voi, o lei in particolare, ma il Potere".
"Il Potere? Fesserie, le solite fesserie buone per i fessi, roba vecchia, parole, parole che andavano qualche anno fa. Aggiornati, sei in ritardo ideologicamente".
"E lei è in anticipo...".
Lia e Tina vengono rispedite ai propri paesi con l'obbligo di presentarsi entro un giorno alle rispettive stazioni dei carabinieri. Partono in autostop, un camionista le accompagna fino a una trattoria, dove "si mangia bene" e potranno trovare un passaggio: si fermano a pranzo, accendono il juke box e ballano nel locale insieme agli altri clienti. Ma si sono imbattute nelle persone sbagliate: se ne vanno, infatti, appena l'invadenza degli avventori della trattoria inizia ad infastidirle, attraversano una pineta per arrivare alla vicina strada statale, scoprono di essere state seguite proprio da quei balordi. Vengono raggiunte, gli inseguitori sono una decina: le massacrano di botte, le violentano e poi le ammazzano barbaramente.
Racconta Fernando Di Leo: "Avevo preso appunti per la sceneggiatura: aneddoti, scene, cronache di giornali, considerazioni meta-sociali, femminismo, protofemminismo, post-femminismo, fine del periodo hippy e fallimento delle comuni. Quindi tracciai il plot: due ragazze "libere" si muovevano con "libertà" in un mondo dove credevano di poterlo fare ed invece venivano uccise per aver usato la loro libertà, in quanto il mondo non era ancora pronto ad accettarle. Gloria Guida e Lilli Carati, fisicamente perfette per le parti, come attrici non erano tante attrezzate: ce la misero tutta per accontentarmi, dissero parolacce liberatorie, fecero scene erotiche con uomini, con donne e tra di loro, ballarono sensualmente, recitarono al meglio, coadiuvate da Vittorio Caprioli, Giorgio Bracardi, Leopoldo Mastelloni (grande talento al suo primo film), però il tutto non carburava. La trasgressione non riusciva mai ad avere la forza di diventare "significante"; il "mondo" con cui le ragazze si scontravano non aveva la pregnanza "squallida" per il contrasto necessario all'ideologia del film. Provai a scordarmi tutto quello che avrei voluto dire quando montai il film e a fare un prodotto più modesto. Ma anche sotto quest'ottica Avere vent'anni faceva acqua: eppure erano tante le cose che mi piacevano allorchè lo scrissi e tutta la sequenza finale, da quando le ragazze ballano, eccitando una compagnia di balordi, e vengono inseguite nei boschi fino allo stupro e massacro finale, era ottima nel film. Il testo del Nazariota era di buona qualità; anche Bracardi obbedì al testo, e anche gli altri. Forse non oggettivai il problema o la massa di problemi che il film pretendeva di esporre. Forse quello che volevo dire piaceva solo a me e non cercai la forma giusta per farlo piacere anche al pubblico, o forse ciò che piaceva a me non sarebbe piaciuto a nessuno, o, ancora più semplicemente, la "roba" non era "significante" come credevo io".
Avere vent'anni è un film sull'impossibilità: l'impossibilità per due donne, Lia e Tina, di essere veramente libere, e per due attrici, Gloria Guida e Lilli Carati, di scatenarsi sulle ceneri della commedia-sexy per reclamarne la propria metaforica emancipazione. Proprio al personaggio di Lilli Carati lo script offre le occasioni più brillanti per (s)vestirsi dei panni dello stereotipo e trasformarsi nel simbolo di un riscatto impossibile. Lo sottolinea anche Leopoldo Mastelloni ricordando il film: "Seppi che c'erano Gloria Guida e Lilli Carati, due attrici popolari, però, chiaramente, due attrici molto commerciali della commedia all'italiana, una "leggera" commedia all'italiana, anche un po' scollacciata, e questo mi sgomentò. Però, poi, lessi il copione e vidi che si trattava di una specie di riscatto di queste due attrici, che poi, nel tempo, durante la lavorazione, ho scoperto anche brave, Lilli Carati soprattutto: era molto brava, molto aperta, molto moderna, molto francese. Oggi sarebbe molto attuale". Ed infatti l'attrice lombarda ha l'occasione di impegnarsi e scatenarsi con quella libertà che non la sfiorerà mai più in carriera: la sua performance è spesso sopra le righe e fanno sorridere i suoi tentativi di affrancarsi dal consueto ruolo di donna provocante e disinibita, ma la spontaneità con cui tenta di impersonare la sua Tina (riuscendovi a tratti, quando, cioè, la sua esibizione non appare eccessivamente forzata), denota un impegno serio e lodevole.
Il film venne ritirato poco dopo l'uscita nelle sale cinematografiche (con, tra l'altro, gli esercenti regionali, cioè i proprietari delle sale cinematografiche di tutta Italia, inferociti perchè avevano contribuito ai finanziamenti produttivi), tagliato e rimontato (in realtà completamente stravolto), trasformando la furibonda esplosione di violenza del finale in un ridicolo ed insulso happy end. Di Leo difende il suo film: "Contavo molto su Avere vent'anni, invece non è andato bene. Non so se è stato il pubblico che mi ha detto no o i distributori, che avendolo tagliato in due-tre parti in mezzo e poi togliendo l'uccisione delle due ragazze alla fine, fecero perdere il senso del film. Perchè il film ha senso soltanto se due ragazze che credono di essere libere vengono uccise per questo "essere libere". Allora il film ha un senso".
Avere vent'anni è un film incompiuto, decisamente fuorviante per lo spettatore, che resta sconcertato dall'accostamento dissonante tra gli ambiziosi propositi dell'autore e le disarmanti scelte stilistiche della messinscena, che rispecchia e (ri)propone ogni nauseabondo viziaccio della commedia all'italiana degli anni Settanta, senza lesinare, quindi, dialoghi ridicoli, sesso a go-go, deprimente voyeurismo, volgarità gratuite e luoghi comuni di bassa lega. Ma lo sconcerto non proviene dalla virata sanguinosa del finale, che infrange le illusioni di libertà delle protagoniste e ne stronca brutalmente l'esistenza, ma dagli sberleffi, dai paradossi, dai controsensi, dalle contraddizioni e dagli eccessi discordanti (sublimati, appunto, nel finale "inaspettato") che Di Leo semina nell'arco del film, frullando insieme citazioni dotte, icone della storia, cultura e controcultura alternativa, mass media e pubblico, post-sessantottismo e neofascismo, Karl Marx e Coca Cola.
Conclude il regista: "Devo confessare che Avere vent'anni mi aspettavo fosse un successo. Riconosco che non fosse un gran film, ma era coraggioso, arrogante, abbastanza socializzato, con gli attori quasi tutti giusti; invece se non fu un flop poco ci mancò. A chi si deve il tentativo di recuperare gli incassi che non c'erano stati? Agli esercenti che tagliarono il finale tragico e fecero finire il film ballando? Al produttore che riceveva le lamentele dei distributori? Al pubblico che usciva shockato perchè due note divette consolatorie venivano massacrate malamente?".
Un film da rivalutare non perchè il trascorrere del tempo abbia consensito di decifrarne qualche oscuro messaggio incompreso o travisato all'epoca della sua uscita, ma perchè possiede la qualità fondamentale, perversa e vitale al tempo stesso, del trash più puro: cinema "serio", cioè, profondamente meditato, spesso anche grande cinema. Però travestito da merda...
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