Regia di Wim Wenders vedi scheda film
"Don't come knocking" appartiene al filone del cinema "post-11 settembre", quell'esiguo e complessivamente fallimentare insieme di film che, nei primi anni Zero, cercò di rappresentare umori e pensieri degli USA appena shockati dall'attentato alle Twin Towers e aspramente contestati per i provvedimenti reazionari dell'amministrazione Bush, dal Patriot Act alla Guerra in Iraq. Si pensò che Hollywood potesse reagire a questa temperie come fece 30 anni prima ai tempi del Vietnam e del Watergate, ossia rifondando la propria cinematografia per renderla consonante con il mood disincantato dell'epoca. E invece non fu così: a parte il memorabile "La 25a Ora" di Spike Lee e poco altro, i registi USA hanno faticato ad esprimere, direttamente o indirettamente, il senso di smarrimento e di colpa di una intera nazione. Nessun nuovo Altman o Coppola, Rafelson o Cimino, per intenderci. Non andò tanto bene nemmeno agli stranieri, quantunque innamorati dell'immaginario a stelle e strisce, sin da inizio carriera. L' "amico tedesco" Wim Wenders, parafrasando un suo film, ci ha provato un paio di volte. La prima andò discretamente: "La terra dell'abbondanza", al di là di qualche scompenso, restituiva un ritratto scorato e a tratti poetico di un "mal d'America" tangibile. La seconda, invece, arranca in un racconto fiacco, privo di intensità ed ispirazione: "Don't come knocking" non offre quasi nulla se non un campionario di luoghi, volti e situazioni prevedibili, in una messinscena che sarebbe decorosa per un qualunque mestierante, ma che risulta imbarazzante per un regista della statura di Wenders. Il film vorrebbe porsi come un'unica, grande metafora di un Paese in crisi d'identità, attraverso la figura paradigmatica di Howard, un attore in fuga dalla finzione, dalla fama, dai bagordi e deciso (mica tanto) a riconciliarsi con la madre e con amanti e figli mai conosciuti, sparsi un po' ovunque per le strade d'America. Come dire: gli USA hanno fatto il bello e il cattivo tempo per decenni, isolandosi ed abbandonando i propri valori fondativi: è giunta l'ora del "mea culpa", dell'espiazione, del riscatto. Se i presupposti sono tutto fuorchè originali, lo svolgimento è ancora più prevedibile. Non c'è un personaggio che non sia risaputo e che non sia portatore di morali scontate: il "reduce" confuso, la madre affettuosa ma risoluta, la ex fiamma isterica, il figlio incazzoso (con insopportabile morosa a seguito). La ragazza che viaggia con le ceneri della madre a presso, prima di disperderle nell'aria e consolare il patrigno, avrebbe potuto essere una figura di maggior originalità e invece cade anch'essa vittima di una sceneggiatura opaca, quando non indifendibile (vedi il finale patetico). Anche a livello estetico, Wenders delude, e non è certo qualche bel panorama a risollevarne le sorti; e il carrello a 360 gradi attorno al divano en plein air, su cui Howard rimugina per ore, resta una immagine inerte e fine a se stessa. Debole, per non dire del tutto trascurata, anche la trattazione del rapporto cinema/realtà, centrale nella poetica di Wenders. Poco soddisfacente anche il comparto attoriale, a parte l'eccellente Tim Roth.
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