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Non bussare alla mia porta

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Non bussare alla mia porta

di Kurtisonic
7 stelle
Vent'anni dopo Paris  Texas, Wenders si congeda (per ora) dall'America con un film più interessante rispetto alle ultime prove, dividendo il racconto fra una nostalgica traccia metacinematografica e un percorso umano a ritroso nel tempo. Howard, attore in declino, abbandona improvvisamente il set posizionato in una classica ambientazione da far west. La sua disperata cavalcata  è come detto non solo proiettata alla ricerca della propria storia individuale ma è anche una metafora sulla fine del cinema, dei suoi miti e di una delle sue case naturali. Sembra che l'omaggio di Wenders tenda ad una destrutturazione dei più comuni elementi strutturali del western: il cowboy è un mestierante, un attore, anzi una sua riproduzione quasi farsesca, il selvaggio west è il materiale profilmico, l'intero set disposto nel mezzo di un'arida pianura come una carovana, le armi sono quelle più moderne cioè carte di credito e cellulare che Howard depone appena fuggito, mentre il cavallo come da copione viene sostituito da una vecchia macchina. Verrà a sapere dell'esistenza di un figlio nato da una fugace avventura, inseguito da un agente assicuratore che lo vuole riportare al lavoro e osservato a distanza da una misteriosa ragazza bionda che stringe fra le braccia l'urna delle ceneri della madre. "Credo che mi piacciano più i film della vita reale.." dice uno dei personaggi, e Howard farà i conti con diverse sorprese e difficoltà, vivendo per la prima volta dopo troppo tempo la realtà di ogni giorno, intaccata dal passato e affatto accomodante nei suoi confronti. Il film pur scontando qualche incoerenza narrativa è ben sostenuto da un cast all'altezza, da S.Shepard (Howard) a J.Lange (la vecchia fiamma ingravidata) da S.Polley( la ragazza misteriosa) a G.Mann (il figlio Earl). Se però i personaggi sembrano ripercorrere partiture e iconografie comportamentali vicino ai protagonisti da strada dei Coen o di J.Jarmush, sono gli ambienti, gli scenari che Wenders vuole immortalare come indelebili ricordi. Mette a frutto tutta la sua sensibilità fotografica, costruisce una cornice struggente e quasi metafisica intorno ai personaggi, fra colori, oggetti, angolazioni, ombreggiature, tutto diventa evocativo della realtà perduta , di una percezione destinata a spegnersi come nella memoria collettiva anche nella mente di Howard.

"..Ho pensato che l' unico posto al mondo dove la decadenza non poteva esistere era l' America. Naturalmente mi sbagliavo, e, tuttavia, la decadenza in Usa è molto diversa, perché gli americani non si voltano indietro, non sono nostalgici; lì una cosa che si sta decomponendo non viene neppure presa in considerazione. Gli unici che hanno fotografato le vecchie stazioni di servizio in abbandono sono gli europei, gli americani non sapevano nemmeno perché avrebbero dovuto guardare lì"(W.Wenders). Eppure il regista non dichiara la resa, non siamo alla fine delle immagini da cui non poter più trarre delle storie. E neanche che questo cinema non abbia figli, Wenders li riconosce come fa Howard, ma semplicemente ammette che sono altro, nè meglio o peggio di chi li ha preceduti. Prima del malinconico finale, il regista si concede un passaggio dal sapore classico, un monologo della ragazza  rivolto al protagonista, imprevisto e senza troppo spiegare, ma intenso e inaspettatamente emozionante tanto da sembrare fuori luogo. Ne risulta un estremo omaggio ad un cinema più spontaneo e meno programmato, più sincero nella sua finzione volta a stupire, meno costruito ma ricco di forza creativa e sentimentale. Quando Howard invece si ferma a fare benzina, la stazione di servizio non è più l'epico agglomerato di ruggine con l'insegna traballante. Le pompe sono allineate perfettamente nel moderno impianto, la luce fredda e raggelante dei neon si staglia sulle pistole infilate nel guscio apposito, pronte a scattare solo se si è pagato in anticipo il dovuto.

 

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