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Non bussare alla mia porta

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Non bussare alla mia porta

di FilmTv Rivista
8 stelle

«Perché far passare tanto tempo?», chiede una ragazza bionda ed esile a un uomo maturo, dal volto segnato. «Perché non sapevo che stava passando», risponde lui, seduto su un divano in mezzo a una strada, circondato dai detriti degli oggetti, i mobili, gli strumenti che suo figlio ha buttato dalla finestra per liberarsi di tutto, di un faticoso passato senza padre e di un futuro che la ricomparsa improvvisa dell’uomo rende, se è possibile, ancora più doloroso. Quasi piangendo, la racconta, il giovane Earl al vecchio Howard, tutta la fatica che ha fatto a crescere senza di lui, il senso di vuoto e di vertigine; finché «un giorno tutto è finito, sparito, e io non voglio ricominciare a cadere». Nessuno vuole, e soprattutto nessuno può, ricominciare a cadere perché una mattina, dopo l’ennesima notte brava con un paio di ragazze e litri di alcol, Howard Spence, divo western dalle molte intemperanze, con i suoi speroni d’argento e la sua camicia ricamata, è fuggito al galoppo dal set deciso a ripercorrere i propri passi perduti, a ritrovare le occasioni e la vita che non ha avuto, una madre nel Nevada, una donna nel Montana, un figlio ormai trentenne, in cerca di qualcuno che, come gli dice Doreen, lo salvi dalla verità. Ce ne ha messo del tempo, e le donne e i figli della sua vita sono andati avanti da soli. Perciò, «Don’t come knocking». Non bussare alla mia porta. E, dopo una scenata per strada che è un raro pezzo di bravura e un bacio irato e appassionato sulla bocca, Doreen gli volta le spalle e se ne va. Storia bellissima di una generazione che è invecchiata senza figli (quella di Wenders e del suo co-sceneggiatore e protagonista Sam Shepard) e che addirittura si è scoperta vecchia all’improvviso, intrecciata con quella dei figli cresciuti senza padri, di fragilità e assenze che si rispecchiano le une nelle altre, di tempi sfalsati, egoismi, rimpianti, tenerezze impossibili, Non bussare alla mia porta è anche un film sul mito, sul cinema che amavamo e che non è più (quello dove l’eroe esce trionfante dall’inquadratura impennando il suo cavallo), sull’America che amavamo e che forse sta ancora nascosta tra le highway e i deserti, tra le stazioni di servizio e le sale d’attesa del Greyhound, sbalzata nelle figurine surreali che si incontrano sulla strada, chiusa in un bar dove un ragazzo canta rabbioso. Road movie definitivo e affettuoso, ventun’anni dopo il tormentato Paris, Texas, è un rendiconto del casino che abbiamo fatto della nostra vita e un omaggio alla bravura dei nostri “non-figli” a sopravvivere nonostante noi.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 40 del 2005

Autore: Emanuela Martini

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