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Manderlay

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Manderlay

di (spopola) 1726792
8 stelle

Von Trier, frantuma e rimpasta punti di vista opposti ignorando regole e principi. Sordo al rispetto delle convenzioni, instilla dubbi e sospetti, semina tracce e azzarda conclusioni. Sorretto da uno stile scabro e personale, cerca di disturbare e di sorprendere esercitandosi a freddo sui temi del tradimento, della dipendenza e del masochismo.

...e Grace approdò a Manderlay, seconda tappa del viaggio nella cattiva coscienza di questa America imprevedibile e assurda. Il teorema messo a punto con millimetrica precisione da Lars Von Trier è ancora una volta privo di alternative e senza speranza, non lascia spazio agli accomodamenti e alle illusioni e rappresenta, ideologicamente parlando, un implacabile, quanto motivato atto di accusa che non consente redenzioni ipocrite o tardive, non accetta attenuanti e non ammette ripensamenti o comode scappatoie. Singolarmente però è al tempo stesso anche un "racconto morale" prevedibilmente scontato e molto schematizzato (forse più del consueto) che costituisce, è vero, una pesante denuncia delle responsabilità oggettive radicate nel profondo e difficilmente rimuovibili, ma lascia al tempo stesso molti punti sospesi e altrettanti dubbi irrisolti: troppo programmatico, eccessivamente "costruito a tavolino" per sbalordire e ottundere, non ha l'afflato della poesia e presenta i limiti delle forzature di ogni opera "a tesi". Come al solito il regista è provocatorio ed eccessivo, vuole spiazzare e sbalordire (anche se questa volta ripercorre strade già tracciate con più ispirazione e risultati di maggiore eccellenza) attraverso una storia che è più "raccontata" che "visualizzata", con quella voce fuori campo così insistita e debordante che risulta spesso un poco fastidiosa, proprio perchè tende a "comunicare verbalmente" quello che le immagini non riescono ad illustrare pienamente (come invece, a mio avviso, accadeva con Dogville), e risultano per questo troppo didascaliche per riuscire, da sole, a farsi carico con successo dell'oneroso compito di trasmettere il "pathos" drammatico delle situazioni e degli eventi tremebondi evidenziati dal concatenarsi degli eventi, pur nella prospettiva brechtiana dell'estraniamento critico che rappresenta la necessaria chiave di lettura di tutta l'operazione. Probabilmente è la tematica molto più complessa e articolata che prendendo a pretesto il problema della schiavitù e della contrapposizione di razze diverse e subalterne, parificabili, ma non sufficientemente parificate, cerca di "raccontare" non solo i disagi di una convivenza che presenta ancora discrepanze macroscopiche, ma anche l'impossibilità oggettiva di "legiferare" con la prepotenza e la prevaricazione comportamenti e abitudini, e di esportare ed imporre con la forza ciò che viene definito democrazia (o si ritiene - a torto o a ragione - che debba essere identificato con questa roboante terminologia spesso concettualmente non appropriata) a rappresentare il limite più evidente di tutta l'impresa. Il regista cerca ancora una volta, attraverso il suo stile scabro, crudele e iconoclasta, di disturbare e di sorprendere, esercitandosi a freddo sui temi del "tradimento", del "terrore", della "violenza", della "dipendenza" e del masochismo, che determinano spesso una sottomissione indotta e perversa che non è solo fisica, ma anche e soprattutto psicologica e morale, ma lo fa con frecce per una volta leggermente meno acuminate di quelle utilizzate in altre circostanze, che riescono forse anche a centrare il bersaglio, ma non hanno la forza sufficiente per restare conficcate nel legno e per "incidere" davvero. Rispetto a Dogville, cambiano gli interpreti principali (molti si riciclano in altri ruoli) - e i nuovi risultano certamente adeguati, ma meno carismatici e "decisivi" dei precedenti - ma non le modalità del racconto, nuovamente diviso in capitoli (sostitutivi dei siparietti brechtiani), non l'impostazione scenica e "drammaturgica", che però risulta adesso più posticcia e ricercata e per questo, meno necessaria, forse più meccanica, quasi un pretesto intellettualistico, o un "vezzo" più artefatto e meno essenziale di quanto non risultasse la messa in scena "teatralmente efficace" della precedente pellicola. L'altro pesante neo, che contribuisce a far relegare lo spettatore al ruolo di un indifferente e amorfo fruitore esterno, un testimone passivoe non attivo del dramma, è il ruolo che Grace si ritaglia questa volta nella storia... coinvolta è vero, e spesso anche "usata", ma non "stravolta" e "devastata" come in Dogville. Lei rappresemta in Manderlay il pretesto, non il fulcro, è "causa" più che vittima, risulta insomma più marginale rispetto alla tesi... e tale da non far lievitare sufficientemente la materia. Lo scetticismo radicato e inamovibile di Von Trier, frantuma e rimpasta punti di vista opposti e complementari, operando come al solito sul ribaltamento di ogni regola e principio, sordo al rispetto di convenzioni e di opportunismi pratici, tenta di instillare dubbi e sospetti, semina "tracce" e azzarda "conclusioni"... ma questa volta purtroppo ha il gravissimo difetto di non incantare: il "gioco" è scoperto e scontato fino dall'inizio, non rappresenta una lezione comportamentale, ma è una semplice predica che si disperde nell'inutile oratoria del racconto.
Nonostante le evidenti limitazioni oggettive però, le argomentazioni, gli esperimenti entomologici lucidi e razionali su personaggi e situazioni, determinano inevitabilmente da parte mia una adesione viscerale e, conseguentemente, una classificazione comunque positiva anche se con qualche (molte più di una) riserva.

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