Regia di Woody Allen vedi scheda film
Ventotto anni fa, Alvy Singer e Annie Hall si incontravano a New York durante una partita a tennis; imbarazzati, si piacevano, si corteggiavano e, finché durava, si mettevano insieme. Nella loro “partita”, nessuno vinceva e nessuno perdeva, perché non era giocata sulla prevaricazione ma sull’affetto e sul rispetto. Oggi, a Londra, i tempi sono cambiati; ci sono in circolazione una durezza di cuore, un’insensatezza dei gesti, una fragilità psicologica e morale che rendono il gioco inevitabilmente duro e scriteriato. Oggi, si fa punto, e chi perde non si risolleva più. Dalla commedia (amara) di Io e Annie si passa al dramma (rarefatto) di Match Point, l’ultimo, bellissimo film di Woody Allen che racconta dell’ascesa sociale di un giovane ex tennista irlandese trasferitosi a Londra per fare il maestro di tennis e dare la scalata alla buona società e degli “strumenti” (le persone) che egli usa, a loro volta tutt’altro che ingenui ma istintivamente prevaricatori. Storia durissima di classi e inganni e abbagli, dove il sesso, il denaro e il successo sono gli aridi motori degli affetti, Match Point si apre con l’immagine congelata di una pallina che colpisce il nastro della rete, e non si sa da che parte cadrà. Vittoria o sconfitta: «Chi disse preferisco avere fortuna che talento aveva capito l’essenza della vita». E Jonathan Rhys Meyers, occhi azzurri ben spalancati sul mondo e una malinconica, imperscrutabile austerità di fondo, comincia a intrecciare la propria vita con quella di un giovane londinese ricco, di sua sorella e della sua fidanzata, anche lei un’aliena (un’attrice americana senza successo) nel pianeta all’apparenza conciliante dello snobismo britannico. L’atmosfera sembra lieve, fatta di passeggiate in coppia tra gallerie d’arte, giardini, wine bar, di prime teatrali e weekend in campagna; ma il contrappunto musicale è inequivocabile: melodramma, Elisir d’amore (Una furtiva lacrima è in pratica il “tema” del film), Rigoletto, Traviata. E al cinema passa Rififi di Dassin, cupo noir senza redenzione, e a teatro The Woman in White, cioè il capostipite del poliziesco inglese e un parente stretto della “gothic novel”, scritto nel 1860 da Wilkie Collins e trasformato in un musical da Andrew Lloyd Webber nel 2004. Perciò, quando gli occhi del protagonista incrociano quelli altrettanto azzurri di Scarlett Johansson (anche lei pericolosa), l’ambiguità sottile che disturbava l’apparente limpidezza del quadro si fa palpabile. Woody Allen ormai dirige con una semplicità magistrale: qualche carrello per strada, campi e controcampi, accenni di zoom sui volti in un paio di momenti psicologicamente determinanti, un’esemplare sequenza in montaggio alternato. Una “pulizia” alla quale corrisponde una visione sconfortante e lucidissima dei rapporti umani. Non ci dà lezioni; semplicemente ci racconta una storia di successo e delle sue inevitabili “casualties of war”, una storia che riecheggia un altro film che narrava di un tennista e dei suoi problemi con le donne, Delitto per delitto di Hitchcock, il più disincantato maestro di cinismo, che Allen cita impercettibilmente altrove, nei dialoghi paradossali tra i due poliziotti (Frenzy), nell’andirivieni nello scantinato nel quale sono riposti i fucili da caccia (Notorious), nella stessa sensualità pigra della Johansson, che non può non richiamare Kim Novak. Non sappiamo da che lato della rete cadrà la pallina da tennis; ma, dovunque cada e di chiunque decreti la vittoria, non ci rassicurerà.
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