Regia di Woody Allen vedi scheda film
La critica si è innamorata di questo film, accattivante come una lussuosa vetrina da boutique, preciso e diretto come un aforisma di Wilde. C'è chi invece è rimasto deluso dall’ennesima prova di adeguamento ai soliti canoni di produzione da parte di un nome che fino a qualche anno fa si distingueva con invidiabile nonchalance. Personalmente riterrei che la situazione sia più problematica, e che forse la soluzione stia nel mezzo. Un film d’autore a metà. Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Ma nonostante lo abbia anche rivisto di recente, è già finito nel dimenticatoio senza lasciarmi traccia. Come se le frequenze di questo film interrompessero rapidamente l’onda d’urto iniziale. La stessa vanità di quel mondo vuoto e altolocato che critica? O è un film freddo come la legge del destino che snocciola sin dalla prima patinata sequenza? Sì, ma se l’opera si fa vana quella stessa critica perde di senso. Se il tutto fosse stato voluto da un Allen ipoteticamente 'rassegnato', il film avrebbe recato comunque traccia di tale posizione del suo autore, mantenendo la sua efficacia nonostante la rarefazione nella memoria, o la scarsa incisività che lo contraddistingue. Anche la vanità, in altre parole, può essere efficace. Questo film ho forti dubbi che lo sia. Ho aspettato prima di affibbiargli un giudizio, ma se lo avessi fatto prima sarei stato più indulgente. Anzi più passa il tempo più ‘cala’. Non ha persistenza. Non perché sia un'opera mediocre, ma per il fatto che a suo modo, per ragioni varie e complesse, non è "sufficiente". Tuttavia le cose rischiano di essere appena più complesse. Non mi illudo, ma forse qualcuno avrà la pazienza di seguire il mio discorso. Match Point è altrettanto “sospeso sul net”, e bisogna chiedersi se il suo autore abbia vinto o perso la partita, o sia approdato davvero al segno x. Per l’artista la transizione o crisi è comunque un dato ineludibile. Se è vero che Allen 'non è più lui' bisogna anche pensare ad ogni suo film come a un prodotto di una condizione conflittuale. Questa, in termini artistici, può portare al fallimento, ma anche al successo (si veda Otto e ½ di Fellini). O a qualcosa che sia tra i due estremi.
Detto questo, siamo di fronte ad un film di pregi tecnici e narrativi (fotografia, intreccio, dialoghi), ma soprattutto ad un discorso dai risvolti tragici e attuali, eppure confinato senza troppi scrupoli nel territorio vasto e affollatissimo di un (neo)classicismo da 'movie-system'.
Lo stile del regista si è definitivamente normalizzato, ora udibile in eco lontana, insottilitosi sulla falsa riga della sinuosità di immagini e contesti rappresentati. Woody Allen, difatti, ha svolto un tema, senza andare troppo oltre. Dà il titolo iniziale (la metafora sul dominio della fortuna, facilmente spogliata di ogni ambiguità semantica) e attorno vi imbastisce un racconto compatto, di scarsa originalità formale ma di indubbia presa, che attraversando melodramma (perverso), thriller e realismo levigato approda alla conferma della tesi iniziale lungo lo sviluppo di un raffinato e illustrativo découpage. Traccia che è essa stessa disseminata di riferimenti al caso, a quel net spazio-temporale che decide delle vite e della vita, allusioni spesso fin troppo evidenziate con un sospetto di ridondanza didascalica. Rischiando dunque la consuetudine del discorso privato d’ambiguità di senso, semplificato e irrigidito.
Permane a stento anche quella distanza critica rispetto alla società e alla spietata incidenza dei rapporti di classe nelle scelte e nei fatti della vita. L’esito della storia è cupo e pertinente alla sua fonte reale, quella tela quotidiana in cui cinismo e viltà tessono il costume dell’uomo sociale, ma la patina visiva e discorsiva del film pare rivelarsi l’ennesima maschera dell’universo borghese, e in definitiva accordarsi col suo gusto, anziché smascherarlo. E’ una critica fatta “dal di dentro” (ciò è da un Allen non meno altolocato e complice), anche per questo, nonostante tutto, poco “brechtiana”, che dipinge e zooma sulle azioni affinate e disordinate nella società delle relazioni corrotte, ma non scalfisce mai il bel volto formale dell’opera, denotando un’ambiguità non risolta dello sguardo. Simile quasi a una fredda distanza, come se il linguaggio fosse più partecipe di un disincanto che di un’indignazione da parte del regista. Un punto di vista interno non interiorizzato, allora. La domanda a questo punto è quanto tale normalizzazione alleniana sia autocosciente, consapevole, voluta. Match Point è un film ‘facile’ (facilitato) ma poco chiaro, e questa, nel complesso di un discorso estetico, è tutt’altro che una nota di demerito. Personalmente, come accennato a principio, credo che non vi sia nulla di voluto in ciò, e che Match Point sia molto fumo e poco arrosto. Ma la questione davvero importante, è che è il film, indipendentemente dall’idea del regista, a farsi portatore di un dubbio del genere. Proponendo il volto nero di una certa realtà in modo convenzionale, creando un contrasto, per cui la forma non si adegua alle crepe della realtà stessa, ma reagisce quasi congelandosi, truccandosi, facendosi falsamente bella. Comune, codificata quanto la normalità della violenza in ogni momento della vita.
Attorno alle gesta del protagonista si raccoglie il tenore scuro della pellicola, una figura a cui Allen conferisce più complessità e ambiguità in fase di sceneggiatura che di regia. Chris Nolan è l’opposto di Raskol'nikov (che uccideva per una visione metastorica del mondo e scontava la sua pena), e precipita nell’abiezione con maldestra risolutività di omicida cinico-pragmatico per inettitudine meramente individuale. Pur essendo, per tali motivi, più amaro e pessimista, il discorso alleniano sulla tragedia reale dell’uomo ha poco della pesante raffinatezza degli intrecci dello scrittore russo, in cui, per ogni parola è percepibile quella febbrile inquietudine morale ed esistenziale che Allen dal canto suo non rende davvero in nessuna delle centinaia di inquadrature di questo film. Siamo nel campo della rappresentazione appunto, ma non sappiamo se siamo nel sottile campo di una sorta di rappresentazione della rappresentazione. E’ vero d’altro canto che nel mondo dell’istituzione cinematografica, una differenza tra illustrazione e denotazione espressiva non abbia più alcuna rilevanza ormai. Nel mondo dell’esperienza artistica è l’esatto contrario, ciò è tutto. Volete un semplice esempio? Guardatevi la scena dell’apparizione (onirica) delle vittime in Match Point, e dopo, le incursioni del sovrannaturale nei film di Bergman o Dreyer (tra illusione, superstizione, e miracolo) per avere un' idea di quanto qui ci sia un appiattimento dello sguardo e nessuna forza. Questa sequenza ora, nella sua 'media' resa cinematografica, non è il frutto di una scelta voluta (ciò è quella di non marcare sul piano stilistico-espressivo), ma è quello che il regista, in fin dei conti, ha saputo fare. Un risultato modesto. Ma non è detto che il discorso sia valido per l’intera pellicola.
Match Point rischia di essere un film uguale a qualsiasi altro, ma la sua faccia apparente ha altro spessore rispetto ai soliti prodotti da multisala. La pallina è ancora sul net.
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