Regia di Woody Allen vedi scheda film
Quando vai a vedere Allen sai quello che "non" vedrai. Non importa che sia una commedia yiddish o una variante hitchcockiana, ma sicuramente non vedrai un film come tutti gli altri. A maggior ragione questo "Match Point" apologizza a suo modo il male, ricavandogli un posto in paradiso. Punto di forza, oltre ad una regia ispiratissima, sono gli interpreti. Se Scarlett Johansson è la nuova femme fatale dal carisma maggiore sulla piazza oggi, le sono seconde solo Naomi Watts e Gwyneth Paltrow o la alterna Nicole Kidman, il partner maschile è il solito bravo e insostituibile borderline che amiamo di più. Jonathan Rhys-Meyers è fisicamente lontano un miglio dai suoi ruoli precedenti, allucinati, appunto borderline, ambigui e "interrotti", ma è pur sempre uno dei più validi attori di questa generazione nata tra la fine dei '70 e i primi degli '80. Abituato a ruoli schizzati, qui è più misurato, più contenuto, ma per esplodere poi sul finale, come un orgasmo trattenuto anche fin troppo dopo il quale tutto torna calmo e apatico. Interpretazione magistrale la sua.
Ma entrambi sono diretti con l'amore di Allen per la storia e i suoi pesonaggi con i loro dialoghi. Come non antologizzare subito, nel momento stesso in cui lo vedi, l'incontro "noir" tra Rhys-Meyers e la Johansson. Al di là del testo, tipico del genere, i volti, le inquadrature dei volti, l'atmosfera sensuale e castrata, che sai che esploderà senza contegno, la si respira subito.
Strindberg e Dostoevskij, due autori non messi a caso nel film. Tra il "Delitto e Castigo" del secondo, sconfessato nel finale, e la follia autodistruttiva del primo, sono le avvisaglie che l'arte entra nella vita e la modifica, oltre ad esserne un insostituibile paradigma. Arte che imita la vita o viceversa? No, l'arte rappresenta la vita, che rimane l'opera più bella. Allen lo sa, e disegna la sua bellezza anche con i colori del male, del sadismo, dell'opportunismo, della meschinità. Fa male a dirlo, ma è vita anche questa, e per molti è la vita per eccellenza. Lupi tra gli agnelli. Con un occhio alla tragedia grega, di cui i fantasmi finali ne sono il coro che sentenzia sulla giustizia, e all'opera lirica, tragica e drammatica a sua volta, Woody Allen ci porta in un una dimensione allucinata senza adottarne le forme più tipiche. La regia è distesa, ama i fuori campo degli attori che parlano, e negli scarti in cui l'altro non parla, ci avviciniamo ai personaggi più di quello che vorremmo.
Alla fine l'amaro rimane in bocca allo spettatore medio, ma ci sono anime che si gustano questa piccola cattiveria come un biglietto di prima classe verso lo sdoganamento del politicamente corretto. La tomba del cinema, e dell'arte tutta.
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