Regia di Woody Allen vedi scheda film
La pallina che gira imprevedibilmente sopra il nastro della rete da tennis contiene una simbologia fin troppo chiara, tuttavia vera: l’imprevisto e la buona sorte sono riprodotti in un fermo immagine evidente e insopportabile allo stesso tempo, spartiacque pirandelliano tra felicità e perfida fatalità.
Per una volta ideatore di sciagure, Allen prende ispirazione dai drammi di Tennesse Williams, passa da Dostoevskij e approda ai moderni intrecci teatral-filosofici (la fortuna conta più dell’abilità). E racconta di un protagonista che legge “Delitto e castigo” mentre si conforma a quelle che sono le leggi per entrare nell’alta società: accondiscendenza artefatta, gusto per i vini e gli oggetti di lusso, tenute di campagna dove trascorrere i week end, esercitazioni di tiro al piattello come fossero divertenti giochi di società, arrampicate da un posto di lavoro all’altro, ogni volta caricandosi di maggiori e claustrofobiche responsabilità.
La domanda è: fin dove ci si può spingere per difendere l’acquisita avidità? E se ciò richiedesse l’uccisione di qualcuno? Si potrebbe, dopo, vivere impuniti senza il raccapriccio di vedere la coscienza macchiata per sempre? La misura del pensiero alleniano non tratta di disfattismo vero e proprio. Piuttosto di una filosofia, magari un po’ spicciola, che tuttavia riscatta la scommessa del regista in una mirabile sospensione di giudizio conferendo allo spettatore un onere lancinante.
Scetticismo di livello eccellente, che probabilmente supera in accuratezza e distacco i personaggi di “Crimini e misfatti”. In “Match Point” l’assillo delle caratterizzazioni psicologiche è penetrante e totale. Ti prende alla gola durante quegli istanti di istintiva o calcolata follia che odora di omicidio e che Allen tira per le lunghe in una suspense quasi insostenibile ricordando i migliori passaggi hitchcockiani. A differenza del Maestro inglese trasferitosi in USA, dove ha girato i suoi film migliori, Woody compie il tragitto inverso per affrancarsi da sceneggiature tiratissime e ardue, diffondendo per una volta una scrittura distesa. Ottimo esito per un autore che si è assunto il peso di una prova a tutto campo, senza appellarsi alle abituali doti di commediante.
Visto che uno dei contenuti principali della sceneggiatura comprende lo splendore di volti e cose, che coprono imbrogli e azioni terribili, la scelta degli attori ha dovuto virare verso il fascino. A parte i bravissimi Emily Mortimer (nel ruolo di Chloe), Brian Cox e Penelope Wilton (i suoi genitori), si è puntato sulla freschezza della gioventù, chiamando a corte il non memorabile ma essenziale Jonathan Rhys-Meyer (Chris) e la sirena incantatrice interpretata da Scarlett Johansson (Nola), questi ultimi ineccepibili nell’acquisire clemenza dal pubblico. Nel film si racconta che Chris, nel ruolo del maestro di tennis, è stato professionista e ha giocato con Tim Henman. Ma a vederlo scambiare da fondo, difficilmente possiamo pensare che sia superiore a un qualsiasi giocatore della domenica.
Pur staccandosi dall’orticello newyorkese e dai suoi infiniti ed eccitabili ideologi, Woody Allen inscena una pellicola molto appagante e spedita, nonostante la novità della durata (si superano di poco le due ore) e di alcune sequenze particolarmente sensuali. Restano i luoghi frequentati dai personaggi: mostre, ristoranti e teatri. Privi però di troppi tocchi brillanti, in una Londra quasi sempre grigia o piovosa.
Donizetti, Verdi, Rossini e Bizet conciliano la curiosità dello sguardo alleniano con il dramma sentimentale e, tramite una serie di arie d’opera assemblate perfettamente, tratteggiano la famiglia benestante presa a modello con le sue smancerie di finte intese e ostili agitazioni.
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