Regia di Samuel Fuller vedi scheda film
Alla fine della guerra di secessione un ex soldato sudista non accetta di arrendersi e si dirige a ovest. Incontra un vecchio scout indiano al soldo dei federali, poi viene catturato dai Sioux e sottoposto a una crudele prova di inseguimento (la “corsa della freccia” del titolo originale) a cui però sopravvive con l’aiuto (irregolare) di una squaw. Decide di fermarsi a vivere nella tribù, si sposa e si integra al punto che, quando si tratta di fornire una guida ai soldati bianchi (che intendono costruire un forte, tenendosi però al di fuori dei territori di caccia indiani per garantire la convivenza pacifica), viene prescelto lui. Durante la spedizione impara ad apprezzare un ufficiale, insieme a cui cerca di tenere a bada gli scalmanati di entrambe le parti. I patti, però, non vengono rispettati. Nonostante certi limiti nella raffigurazione degli indiani, inevitabili per l’epoca, e qualche didascalismo nei dialoghi (vengono fornite istruzioni sulle usanze Sioux, si discute sui motivi della guerra civile e sulla religiosità di cristiani e non cristiani), il film è una notevolissima anticipazione del western revisionista in stile Corvo Rosso non avrai il mio scalpo e Balla coi lupi. Nessun manicheismo di maniera: gli indiani sono spietati (il crudo finale è degno di Soldato blu), perché la vita che conducono lo è; ciò che conta, indiani o bianchi, è rispettare la parola. E c’è il tema dei conti in sospeso che prima o poi vanno sistemati: alla fine Steiger uccide il nordista, per non farlo soffrire (lo stanno scuoiando), usando la stessa pallottola che gli aveva sparato nell’ultimo giorno di guerra, ferendolo non mortalmente; e da parte sua c’è la consapevolezza di aver meritato la stessa fine, perché anche lui era potuto sopravvivere solo trasgredendo le regole della sfida.
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