Regia di Oliver Hirschbiegel vedi scheda film
Fin dall’inizio, l’impressione perdurante che si ha assistendo a La caduta (il film di Oliver Hirschbiegel sugli ultimi dodici giorni di Hitler, chiuso nel suo bunker nel cuore di Berlino assediata dagli alleati) è di trovarsi in un manicomio dove un matto con baffetti e palandrana dice di essere Adolf Hitler e tutti gli altri (familiari e gerarchi, Eva Braun e Göbbels con la sua famiglia, segretarie e attendenti) si guardano allibiti, ma decidono di non contraddirlo e fingono di credergli. Poteva essere una strada espressiva interessante, una scelta di lettura “straniante” vagamente alla Marat-Sade di Peter Brook, che avrebbe concesso all’autore la distanza indispensabile a una storicizzazione e un’analisi approfondita. Invece, l’operazione di Hirschbiegel ha intenzioni molto realistiche e quotidiane: spiare i protagonisti della Storia “dal buco della serratura”, attraverso gli occhi ingenui della giovane segretaria (che rivendica alla fine l’innocenza del popolo tedesco che non sapeva), e contrappuntarli con gli orrori della Disfatta che colpisce all’esterno la gente di Berlino. Così, la recitazione di Bruno Ganz finisce per apparire ai limiti della caricatura, le battute “quotidiane” spesso ridicole, la dissoluzione del Reich un cascame del tardissimo viscontismo, la caduta di Berlino un set convenzionale da fiction televisiva. Solo nell’ultima mezz’ora (con la scomparsa di Hitler e l’uscita definitiva dal bunker), La caduta acquista pathos, quando la finzione narrativa si sostituisce all’apparenza storica. Impossibile, oggi, fare i conti con Hitler e il nazismo senza un minimo di attitudine metaforica e senza un massimo di consapevolezza morale e storica.
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