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Saimir

Regia di Francesco Munzi vedi scheda film

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La recensione su Saimir

di Peppe Comune
7 stelle

Saimir (Mishel Minoku) è un ragazzo albanese che vive in sobborgo urbano lungo il litorale laziale. Accompagna spesso col camion il padre (Xhevdet Feri) che lavora nel giro del traffico di immigrati per conto dei piccoli imprenditori agricoli della zona. Non sopporta che il padre guadagni i soldi per vivere sfruttando la miseria dei suoi stessi connazionali, e neanche che stia per sposare Simona (Anna Ferruzzo) per ottenere la cittadinanza italiana. Anche lui è dedito a varie ruberie e sembra imprigionato in un mondo che non gli offre vie d’uscita. Ma le cose cambiano quando conosce Michela (Lavinia Guglielman), una ragazza del posto di cui si invaghisce subito. Ma soprattutto, quando il padre introduce nel paese una minorenne che deve essere iniziata alla prostituzione, Saimir decide di ribellarsi.

 

 

 

“Saimir” di Francesco Munzi è un buon esempio di cinema incentrato sui temi congiunti delle periferie degradate e dell’infanzia negata, due facce di una stessa medaglia perché molto spesso succede che l’incidenza sociale del primo prodotto funga da premessa essenziale per il sorgere della seconda evenienza. Impossibile non scorgere un legame filologico con “La promesse” dei fratelli Dardenne. Primo, perché entrambi i film fanno leva sul legame funzionale tra padre e figlio. Secondo, perché sia Igor che Saimir arrivano a scegliere autonomamente che le attività illecite dei rispettivi padri un certo limite non possono proprio superarlo. Infine, ci sono le scorribande in motorino (rigorosamente senza casco) dei due ragazzi, che è poi l’aspetto che maggiormente (mi) induce a parlare di una chiara e voluta citazione da parte di Francesco Munzi. Poi certamente divergono per stile ed impronta poetica, più rigoroso e venato di umanesimo sociale il primo (grande) film dei fratelli belgi, più incline a concentrarsi con taglio etnografico su particolari scenari urbani quello dell’esordiente autore romano.

C’è un mondo invisibile che si stenta a voler riconoscere, è quello che sorge e pullula ai margini dei grandi agglomerati urbani , rasente la generalizzata ostentazione di benessere, in quelle disordinate periferie “pasoliniane” dove il limite tra il lecito e l’illecito è determinato dalla severa legge della sopravvivenza. Non luoghi che sono configurati apposta per diventare dei ricettacoli del malaffare, per incattivire gli animi delle persone che vi abitano portandole ben oltre la loro originaria predisposizione a delinquere. Purgatori terreni abitati da emarginati sociali che reagiscono alla vita che gli è capitata in sorte opponendovi una rivincita disordinata contro quel mondo che non li vuole. Saimir è figlio di quei luoghi di confine e rappresenta il prodotto emblematico di quelle dinamiche sociali che rendono difficile la piena integrazione tra individui di estrazione economica e culturale differente, fosse solo perché, in ogni tempo e luogo, una regola non scritta, sembra essere quella di trovare convenienza a mantenere inalterati certi (dis)equilibri planetari, a far si che queste periferie difficili diventino gli scenari ideali di quella terra tra poveri che fa solo prigionieri.

Potenza del cinema questa di aprire la mente a squarci di riflessioni critiche sul mondo anche solo rimanendo ancorati alle fattezze morfologiche di un territorio circoscritto e agli stati emozionali di un ragazzo sbandato. Anche attraverso poche ma significative sequenze, capaci di produrre significati convincenti. Come le scorribande in motorino senza casco, indice di un territorio privo di controllo legale, o le case disadorne e le baraccopoli, segno tangibile di un degrado urbano che ha messo solide radici. E ancora, l’innamoramento fulmineo di Saimir per Michela e il bagno fatto insieme in un mare gelido, che indica il desiderio del ragazzo di abbandonarsi alla tenerezza dei sentimenti, di trovare in una figura da amare una complicità finalmente rassicurante. Infine, il regalo costoso fatto da Saimir alla ragazza, specchio dell’idea distorta che con i soldi si può ottenere ogni cosa molto più in fretta, una collana d’oro come conquistare il cuore di una ragazza. Sequenza “quadro” che si innestano all’interno di un milieu urbano tristemente comune, descritto dal punto di vista di un ragazzo sedicenne disabituato dalla sua magra esistenza a vivere giorni felici e spensierati, un ragazzo stretto nella morsa, da un lato, di individui che cercano l’ascesi sociale ed economica sfruttando chi è ancora più debole di loro e, dall’altro lato sulla voglia di riscattarsi facendo esclusivamente leva sul suo desiderio la vita. Saimir porta le stimmate di quelle periferie invisibili, ma vi si può emancipare in ragione di una coscienza civica non ancora compromessa del tutto. Saimir può ancora sfuggire alle fauci tentacolari del ricatto sociale, può ancora scegliere di emanciparsi dalla devianza sociale, e di fronte ad un territorio che sposta sempre oltre il limite consentito dell’illecito, lui sceglie di ribellarsi contro la perpetuazione silente dello sfruttamento. Proprio come Igor dei Dardenne, Saimir si erge innanzitutto contro il servilismo rassegnato del padre, che poi significa ribellarsi a quel mondo dei grandi che gli stanno consegnando una vita che non gli piace affatto.

Francesco Munzi, già in questo suo film d’esordio, si dimostra un autore bravo a congegnare convincenti affreschi sociali, dando alla rappresentazione della violenza lo spazio che merita all’interno di ordinarie vicende di devianza sociale. Sempre pronto ad affondare i bisturi nella carne molle dei suoi personaggi, tra il taglio antropologico (che guarda Pasolini) e l’analisi sociologica. Ma soprattutto, quello di Francesco Munzi è un cinema che ambisce ad aderire alla realtà fattuale con rigore e sincerità, senza perdersi in gratuiti eccessi drammaturgici. Ingredienti che soprattutto in “Anime nere” raggiungeranno livelli d’eccellenza. Speriamo in seguito.         

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