Regia di Edward Yang vedi scheda film
Ancora oggi, l’isola di Taiwan non gode dello status di Stato indipendente attribuito come tale dalla comunità internazionale. A non riconoscerlo come paese autonomo, oltre alla Cina, sono il Canada e i quattro membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU : USA, Russia, Francia e Inghilterra.
È in questo quadro di sostanziale indeterminatezza che attraversa il paese che si innestano le vicende di Lung (Hou Hsiao-hsien) e Ah-chin (Ko Su-yun). L’uomo è un ex giocatore di baseball che lavora nel settore dei tessuti. È spesso perso nei ricordi dei suoi anni più belli e la crisi del lavoro lo ha come trovato impreparato nel rimettersi in gareggiata con il nuovo che avanza. La donna, invece, ha una formazione più occidentale nonostante sia vissuta in una famiglia tradizionale. Dopo che l’azienda in cui lavorava ha cambiato proprietà, è in attesa di una nuova occupazione. Ma l’influente signora Mei (Chen Shu-fang) crede molto nelle sue capacità manageriali ed è pronta ad offrirgli un posto di primo piano nella nuova società che sta nascendo.
I due si amano, e progettano insieme di trasferirsi negli USA. Ma stanno attraversando un periodo di crisi sentimentale. Un motivo è che Ah-chin ha scoperto che Lung si è visto a Tokyo con Gwan (Ko Su-yun), la sua vecchia ragazza. Un altro è che l’uomo sta aiutando economicamente l’anziano padre (Ko I-chen) della donna, un uomo violento che gli ha fatto trascorrere un’infanzia non proprio felice. Un altro ancora è che Taipei sta cambiando le sue coordinate urbanistiche e i due riflettono modi diversi di rapportarsi con il presente.
All’inizio degli anni ottanta, Taiwan si trovava a vivere una condizione socio politica particolare, stretto com’era tra l’ombra imponente dei “padroni” cinesi e le sirene suadenti della “neo-colonizzazione” liberista. Premessa d’obbligo questa, dato che “Taipei Story” di Edward Yang è un film che ne riflette molto bene il clima di latente indeterminatezza. Lung e Ah-chin fanno parte di quella media borghesia cittadina che dovrebbe prendere in mano il volano del cambiamento. Ma l’autore taiwanese si mostra scettico rispetto alla possibilità di poterci riuscire in maniera virtuosa, ed è bravo a far camminare in un flusso di accadimenti paralleli le forme mutevoli della città e i caratteri irrisolti dei personaggi. Tra loro si instaura un rapporto speculare inevitabile, che il film si premunisce di tratteggiare ancorandosi con convinta perseveranza stilistica ad uno sviluppo anti-narrativo della storia.
“Taipei Story” può essere certamente considerato come il primo film veramente importante della New Wave taiwanese, che di lì a poco, oltre a Edward Yang, verrà imporsi autori del calibro di Hou Hsiao-hsien (qui co-sceneggiatore e attore protagonista) e Tsai-Ming-liang (a mio modesto avviso uno degli autori più incidenti del cinema contemporaneo). E come sempre accade col sorgere di nuove “ondate” culturali che attraversano un paese, ci sono temi che ricorrono spesso pur nella specificità stilistica che caratterizza i diversi autori. In questo caso, sono il rapporto delle persone con un sistema sociale percorso da profonde trasformazioni sociali, la posa dolente dei personaggi, uno stile marcatamente anti-narrativo. Altra cosa che occorre sottolineare e che tra le grandi cinematografie di quell’area geografica, e con specifico riferimento agli autori che hanno fatto “scuola, a differenza di quella coreana, giapponese e hongkonghese, dove emerge una maggiore tendenza a voler equilibrare il tratto più strettamente autoriale con la ricerca di uno stile più dinamico (e autori come Joon-ho Bong e Takashi Mike sono dei maestri in questo), a Taiwan (come in Cina) è più marcata l’attitudine a fare un cinema più introspettivo, più concentrato sull’incomunicabilità dei personaggi, sulle alienazioni prodotte dai contesti metropolitani.
“Taipei Story” si muove seguendo l’andamento incerto dei suoi protagonisti, che sono come dominati da una condizione di persistente sospensione emotiva, in attesa di decidere cosa fare delle loro esistenze. Ognuno vive il presente per quello che è, ma mentre Ah-chin cerca di stare in groppa al futuro che avanza, lasciandosi coinvolgere dall’aria che tira nonostante questa rischi di travolgerla, Lung è ancorato ad un passato che non c’è più, sommerso sotto le forme di una città che va cambiando i suoi connotati genetici. È appunto Taipei la protagonista dichiarata del film, con i suoi palazzoni che si somigliano tutti, il suo traffico tentacolare, la sua smania di dire presente alle lusinghe spinte del capitalismo, la sua periferia “campagnola” progressivamente fagocitata dall’urbanizzazione vorace. Segni tangibili di una trasformazione ancora in atto, ma che già bastano per offrire allo skyline della città uno scenario avveniristico ed omologante insieme. Taipei tende la mano all’occidente, ma rimane ancorato alle sue tradizioni, guarda al futuro con sfrontato ottimismo, ma sa che tutta la bellezza che possiede risiede nei lasciti della sua storia. Sta in mezzo Taipei, tra il modernismo rampante del vicino Giappone, il fascino per gli Usa che mirano a farne un mercato “amico” e l’ombra ingombrante della “madre” Cina (che continua a dichiarare Taiwan "provincia separatista"). Questo percepibile disegno geopolitico trova il suo riflesso concreto nel carattere ondivago dei personaggi, che con la loro difficoltà a comunicare stati d’animo, la loro umoralità, la loro insistente indecisione, si fanno specchio di una revisione valoriale della società molto più ampia. Edward Yang gioca coi loro scarti emotivi e usa la presa comunicativa di azioni significative per far emergere con discreta sottigliezza questo stato di alienazione latente dei due amanti. Entrambi vivono un rapporto non pacificato con il paese che sta cambiando, ma differente è il modo con cui si rapportano con il tempo che scorre (spesso mostrato attraverso un calendario posto sullo sfondo dell’inquadratura) e lo spazio circostante che cambia velocemente le sue coordinate visive (emblematica è l’osservazione di un amico architetto di Lung, che con rammarico gli fa notare che “tra un po’ non riuscirò più a distinguere i miei lavori perché i palazzi saranno tutti uguali”). Lung rimane un idealista che conserva ancora qualche remora nel lasciarsi coinvolgere acriticamente dal “nuovo” che avanza. Torna spesso con la mente ai suoi trascorsi di talentuoso giocatore di Baseball, alla vecchia relazione con Gwan, a ricordare quei luoghi della città in cui “un tempo c’era un teatro, un fruttivendolo e non c’erano così tante macchine” (osserva un anziano signore). Segni discreti che danno sostanza al suo muto temporeggiare, tracce nostalgiche di un’età dell’innocenza che vive solo nei migliori ricordi, corrotta dai colpi di una crisi lavorativa consegnatagli da un presente incerto. Ah-chin è più disincantata, più disposta a lasciarsi definitivamente alle spalle un passato in chiaro scuro, condito da molte amarezze sentimentali e dà molta violenza vissuta in famiglia. Ma anche lei non sa fare di meglio che rimanere immobile, in attesa di scoprire come rimettere in sesto la sua relazione amorosa e come lasciarsi ubriacare dal lavoro. Perché insieme al mostrare un fare più consapevole, indossa sempre degli occhiali molto voluminosi, come a voler nascondere anche a sé stessa il peso delle proprie indecisioni. Entrambi progettano l’ambizione di rifarsi una vita negli USA, anche se sanno che mai si sposteranno da Taipei. Ma mentre Lung lo pensa in virtù di un cordone ombelicale con gli anni belli della sua vita impossibile da recidere, Ah-chin lo fa in ragione di una precisa circostanza prodotta dai tempi : che “non seve più andare negli Usa visto che gli Usa sono entrati a Taipei” (come gli dice la signora Mei). Come è dimostrato nel dolente finale, quando la donna osserva il traffico cittadino filtrato attraverso gli immancabili occhiali e i tanti vetri che popolano gli uffici del suo nuovo luogo di lavoro. Quello che è impresso dall’inquadratura è il riflesso di una città che ancora si è imparato a conoscere, che sta rischiando di perdere la sua identità, di diventare anonima e violenta. Grande cinema.
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