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Taipei Story

Regia di Edward Yang vedi scheda film

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La recensione su Taipei Story

di Baliverna
8 stelle

Buon esempio di cinema taiwanese sulla scia di Antonioni.

Dimenticate Jackie Chan, gli spacciatori di droga, le arti marziali e simili. Qui siamo in presenza di un film intimista, che scava nell'interiorità dei personaggi e ci restituisce il loro stato d'animo, spesso alludendo e non dicendo. Essi sono individui più o meno sofferenti e falliti; nessuno di loro è realizzato e felice, se non, forse, la “signora Mei”. Ma forse è solo un'illusa che insegue i miraggi di una vita tutta protesa al successo economico e alla carriera. La trama con le relazioni tra i personaggi è un po' complessa, va seguita con attenzione e qualcosa può sfuggire, tanto che non sono d'accordo su tutti i punti della sintesi nella scheda di Film TV.

È una pellicola ben girata che cattura subito la nostra attenzione, nonostante abbia un ritmo piuttosto tranquillo. I dialoghi, però, sono ben scritti e gli attori sono tutti bravi. Spesso riescono a comunicarci i sentimenti dei loro personaggi con piccoli gesti del viso, e a volte con il silenzio davanti ad una domanda troppo personale.

L'ambientazione a Taipei, metropoli che incarna lo stile di vita moderno di stampo americano, mette l'accento sull'aridità degli ambienti e l'alienazione dell'individuo inserito in quel mondo dove c'è poco tempo per gli affetti. I personaggi – e specialmente il protagonista – sono malati di solitudine e di incomunicabilità. Si parla poco, sia con i genitori che con il coniuge, il fidanzato o l'amante. E la piaga del gioco d'azzardo fa il resto. Il personaggio principale, in particolare, è affetto da una specie di male di vivere di cui non riesce a venire a capo. La sua vita sentimentale va a pezzi, e quella lavorativa non troppo bene. I dissapori sentimentali e i problemi materiali, però, lo toccano fino ad un certo punto, perché quel peso che ha sul cuore non gli dà requie. Cerca con poca convinzione di riconciliarsi con la fidanzata, e pensa confusamente di trasferirsi negli Stati Uniti, ma anche questa idea non prende corpo.

Il regista Edward Yang punta sullo studio psicologico e interiore dei suoi personaggi, e lascia l'azione in secondo piano. Quando c'è, essa è priva di qualsiasi e enfasi o climax, o viene vista da lontano in modo asettico. Le immagini, però, parlano e come. In questa prospettiva, persino la morte è inquadrata in modo minimalista, quasi banale, e per questo spiazza e amareggia lo spettatore ancora di più. Una morte cagionata quasi per caso da un ragazzo prepotente e vendicativo, che è forse l'unico personaggio veramente antipatico del film

Oltre che essere ultra-moderna e povera dal punto di vista umano, la società taiwanese è infiltrata a tutti i livelli dagli Stati Uniti, con le aziende, l'economia, le mode e la pubblicità (a proposito, sbaglio o vi compare Nastassja Kinski?). Molti vedono nel paese d'oltreoceano un paradiso, ma anche lì non se la passano molto meglio quanto a solitudine: l'uomo ha passato quasi tutto il tempo trascorso negli USA a guardare la televisione...(oggi sarebbe stato il cellulare). Tra uffici pieni e vuoti, squallidi appartamenti, parcheggi, palazzi in costruzione, strade trafficate e trsti locali serali non c'è alcun luogo accogliente e dove ci sia un po' di calore umano. Dopo che le persone erigono come propri valori gli affari, la carriera e l'economia, questo è evidentemente ciò che resta. Ecco, forse, il messaggio di questo film.

 

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