Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Nel 1991 escono due album storici che hanno segnato un'epoca: Nevermind dei Nirvana e Ten dei Pearl Jam. Due dischi e due band che adoro, i quali con questi due album hanno definitivamente fatto scoppiare il "grunge" in tutto il mondo; non si è mai riusciti a capire fino in fondo se il grunge fosse un vero e proprio genere musicale o solo una corrente di riferimento. Il modo di vestirsi trasandato, con camicie di flanella, maglioni di lana e pantaloni sfatti dalla loro hanno creato una vera e propria moda. Il periodo del grunge è da ricordare anche come l'ultimo momento in cui la musica "indipendente" ha fatto breccia nel mainstream, le case discografiche all'epoca, visto il successo del genere, partirono alla ricerca delle più svariate band dai più svariati stili rock d'America e non solo, arrivarono ad una certa notorietà anche esponenti di generi più di nicchia come l'hardcore e l'emocore, prima che con l'arrivo del nuovo millennio e il crollo delle vendite dei dischi il mondo della musica cadesse in una sorta di anarchia pop, dove solo chi vende ha il diritto di esistere e come in una sorta di abbattimento delle vie di mezzo i gruppi alternativi sono sempre più alternativi e per pochi. Un po' come il cinema. Ho scritto tutta questa pappardella anche per dire che i Nirvana sono una band che con i suoi tre album gradisco molto, e questo film, che parla con libertà degli ultimi giorni di vita di Kurt "Blake" Cobain, non poteva che incuriosirmi.
Consegnato alla leggenda per quel tragico gesto, Kurt Cobain, affascinante e magnetico benchè spesso spento e alienato sul palco soprattutto nell'ultimo periodo, egli rispetta le leggi del rocker maledetto: nichilista, insicuro, solo in mezzo alla folla e dal carattere infantile, talentuoso ma condannato dalla propria incapacità di godersi la vita, e forse "grazie" a questo autore di canzoni memorabili. Van Sant sappiamo bene come possa gettarci in film dal ritmo lento e freddamente onniscenti, ricorda in un certo senso Kubrick, il capolavoro Elephant ne è la prova più eclatante e riuscita, ma anche questo film che riduce i virtuosismi riesce nel suo minimalismo a consegnarci un'opera che può avere varie chiavi di lettura. Come un treno che spunta dal nulla e va verso il nulla, l'ora e mezza passata girando per i boschi e la villa di Blake ha un sapore metafisico. E come un treno senza meta i passi, le azioni meccaniche e il suo fuggire dal mondo ci parlano non solo del dramma del protagonista ma anche di chi gli sta intorno, di una generazione senza riferimenti. I suoi "amici", i quali ormai lo considerano evidentemente perso e lasciano che giri libero nelle sue spoglie da umano (umano già morto dentro e spento da un pezzo), anch'essi non hanno la minima visione e concezione del futuro, si confortano l'un l'altro e pensano a vivere il presente senza concedersi vere gioie, ma "vegetando", a sottolinearlo viene in nostro aiuto Lou Reed con i Velvet Underground, la canzone "Venus in furs" è inserita perfettamente in una scena, e la figura apatica e ironica di Reed è perfetta, anche lui un uomo che ha vissuto sempre sul filo del rasoio. Il film fa capire anche la difficoltà della gente di percepire la portata del dramma che affligge le persone vicino a se, come le peggiori disgrazie il suicidio di Blake arriva senza che nessuno se lo aspetti. Ma la vita e la natura che Blake tanto ha osservato nell'ultimo periodo della sua esistenza continuano ad esserci, il suo gesto è comunque inutile, servito solo a placare il suo malessere di vivere, o meglio, il suo non-vivere.
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