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Last Days

Regia di Gus Van Sant vedi scheda film

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La recensione su Last Days

di FilmTv Rivista
8 stelle

Un ragazzo solo, con i capelli lunghi, i jeans stracciati, la maglia penzolante, la “divisa” grunge. Cammina in un bosco, nuota nel fiume, accende un fuoco. Poi, si aggira in una grande casa malconcia, indossa una sottoveste da donna, trova un fucile, cucina degli orrendi spaghetti al formaggio, ascolta un agente pubblicitario delle Pagine gialle, risponde (o non risponde) al telefono, suona un pezzo alla chitarra. Distrattamente, incrocia altri quattro ragazzi che vivono nella stessa casa, che gli parlano, gli chiedono. Ma da Blake, il protagonista di Last Days di Gus Van Sant, escono solo mormorii; nessuno riesce a sfondare il muro di solitudine che sembra essergli cresciuto attorno. Blake è già morto all’inizio del film; quello che resta è la meticolosa disperazione con cui cerca di attaccarsi alla vita quotidiana. Ispirato alla morte di Kurt Cobain e alla curiosità morbosa che si scatenò intorno ai suoi ultimi giorni (un’esperienza che Van Sant ha vissuto per uno dei suoi giovani attori, River Phoenix), Last Days fa un tutt’uno con Gerry (che in Italia non abbiamo mai visto) ed Elephant. Non perché somigli a quei film (questo è ancora più asciutto, scarno, non si concede virtuosismi temporali ed è realizzato per lo più a piani fissi), ma perché, come ha detto l’autore «sono tutte e tre storie nelle quali la gente non sa esattamente quello che accade, perché ci sono in tutte elementi mancanti». E sono tutte e tre storie sulla disperazione giovanile, fatte di vuoto, di nulla, di bisogni inappagati («Una casa su questa terra…», borbotta Blake), di una disperazione che nessuno riesce a scalfire, di uno sbandamento che noi non possiamo capire. Girato con la consueta pulizia di immagini di Van Sant, illuminato da due grandi sequenze (lo sguardo in controcampo della nuotata nel fiume e l’interminabile carrello all’indietro, fuori dalla finestra della stanza nella quale Blake suona), Last Days è meno “spettacolare” dei due film precedenti, la ricognizione ridotta all’osso di una vita nella quale non riusciamo a entrare, sulla quale possiamo solo addolorarci e sulla quale dobbiamo interrogarci.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 20 del 2005

Autore: Emanuela Martini

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