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Last Days

Regia di Gus Van Sant vedi scheda film

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La recensione su Last Days

di Peppe Comune
8 stelle

“Last Days” di Gus Van Sant è un film dedicato alla memoria di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, gruppo di spicco nella scena del Grunge, morto in circostanze alquanto misteriose a soli ventisette anni. Il film non è affatto un resoconto veritiero sugl’ultimi giorni di vita dell’artista e neanche vuole essere il tentativo di farne un santino da esportazione, tutt’altro. Non c’è traccia dell’esperienza dell’artista in questo film (ad esempio, nessuna delle musiche utilizzate sono dei Nirvana), mentre, della sorte dell’uomo giunto al capolinea di una vita fatta di eccessi, si cattura con limpida precisione stilistica il disordine esistenziale e la voglia ostinata di racchiudersi nella propria sofferenza interiore. Il Blake (uno strepitoso Michael Pitt) di Gus Van Sant ha in comune con Kurt Cobain l’esperienza della solitudine, la voglia di nascondere agli altri gli effetti devastanti della sua crisi, di sottrarsi al mondo proprio quando il mondo reclama la sua massima presenza. Blake vive in grande casa in mezzo ad una campagna verdeggiante e molto vicino alle sponde di un fiume. Quando non ha indosso una sottoveste da donna veste assai trasandato, quando non è in giro come uno zombi all’interno della casa se ne va all’aperto a contemplare la natura. Ha poca voglia di parlare e quando è costretto a farlo biascica monosillabi incomprensibili. Si muove come un automa, ora per prepararsi degl’improbabili spaghetti, ora per accompagnarsi con la chitarra al canto di una canzone. Scappa ogni qualvolta vede arrivare qualcuno che lo cerca. Nella casa si aggirano altri ragazzi, Scott (Scott Green), Asia (Asia Argento), Luke (Lukas Haas), Nicole (Nicole Vivius), che cantano, ballano, fumano, bevono, fanno sesso. Anche loro sembrano trascinare stancamente le loro vite. Anche loro non sanno come aiutare Blake. Si intuisce che tutti questi ragazzi hanno a che fare con il mondo della musica perché qualche volta si fa riferimento al loro lavoro di musicisti, pechè c’è qualcuno che canta e qualcun’ altro che compone e, soprattutto, perché c’è chi nutre molto interesse intorno alla carriera di Blake e ingaggia un detective (Ricky Jay) per trovarlo e ricondurlo sulla “retta via”. Ma tutto sembra essere lasciato al caso, con uno schema narrativo che segue anche una sua logica linearità, ma che, accompagnandosi alla disperazione dell’artista e allo scorrere disordinato e approssimativo della vita della grande casa, ne assorbe e ne restituisce tutta la precarietà emotiva che lo sorregge. Ne esce un quadro d’insieme di lucida e ricercata frammentarietà stilistica, come un qualcosa che è lasciato all’improvvisazione del momento, all’attimo in cui l’azione deve necessariamente compiersi, senza un passato che ne prepari il clima e senza un futuro che ne giustifichi l’estemporaneità. Quello che deve essere sarà. Il frequente utilizzo di campi lunghi durante le scene girate in ambienti aperti, consetono a Gus Van Sant, sia di creare un evidente distacco emozionale tra gli interni bui della grande casa e la magnifica campagna circostante, che di assorbire la disperazione di Blake nella perfezione idilliaca di una natura rigogliosa di doni. Tanto sono cupe e indicatrici di uno stato di stringente malessere esistenziale gli scorci di vita catturati nella casa, quanto aperte a nuove possibilità rigeneratrici le sequenze all’aperto. I momenti in cui Blake è seduto sulla sponda del fiume o quando vi si immerge nudo per farsi una nuotata, sembrano i soli che gli interessano veramente, quelli in cui torna padrone di se e figlio imperfetto della natura. Credo si possa affermare che quello che interessa Gus Van Sant è catturare l’essenza del dolore non la sua palese manifestazione, il fatto che, più doloroso di un colpo subito all’improvviso, può essere quella vita che si attorciglia intorno a cicatrici sempre aperte e a eccessi mai superati, aldilà del corso che ha intrapreso, verso la ricchezza o verso la povertà, verso la gloria internazionale o verso l’anonimato. Perché quando le voci di dentro iniziano a bussare ogni uomo può scoprirsi solo con se stesso, coi propri bisogni reali rimasti inappagati e la voglia istintiva di nascondere la propria, fragile, vulnerabilità. Blake è Kurt Cobain quindi, e Kurt Cobain è la star internazionale fagocitata irreversibilmente da un acuta insoddisfazione per la vita. Diventa così l’emblema designato per un’accurata riflessione sul vuoto vacuo prodotto da tanto malessere giovanile.

 

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