Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Last Days è un film, a suo modo, estremo. Per i tempi morti, le inquadrature che si soffermano sulle cose, i mormorii insensati di Blake, la musica dissonante. Per i campi lunghi e la macchina da presa fissa.
Gus Van Sant spinge al limite le scelte stilistiche che aveva utilizzato in Elephant. Solo che mentre in quel film erano giustificate da esigenze narrative qui sembrano perdersi in se stesse.
Alla fine ti sembra di non avere guardato nulla.
Van Sant lascia l’ intero film a se stesso e allo stesso tempo lo controlla attraverso rigide scelte stilistiche. Lascia libertà alla sceneggiatura di modificarsi e evolversi, alle musiche di crearsi quasi da sole, agli attori di improvvisare. Una struttura aperta e chiusa insieme, dove più che la vita degli ultimi giorni di Blake si coglie una inutilità di fondo che non trova senso, però, nel suo essere raccontata.
Tutte le piccole tracce che si sviluppano, come in Elephnat, non portano da nessuna parte e si rincorrono temporalmente. Il film è costruito ad incastri, con un tempo che si riavvolge su se stesso per poi tornare a scorrere. Coraggiosa è la scelta di azzerrare il coinvolgimento emotivo dello spettatore, che si limita a rimanere freddo davanti a quanto vede.
Black, un possibile Kurt Cobain, sperduto, impaurito e solo.
Vestito di stracci, in continua fuga dal mondo e da se stesso e in un continuo stato di rincoglionimento.
Forse le droghe, forse il male di vivere.
Però da cosa nasca tutto questo non viene spiegato.
E in fondo, poi, bisogna anche ricordare che questi ragazzi si ritrovano imballati di soldi e anche con la possibilità di fare quello che vogliono.
Una casa immensa e decadente.
Un bosco dove vagare.
Viaggi in macchina per la prima destinazione che viene in mente.
Qui i perdenti non sono gente povera allo sbaraglio, è gente ricca.
Il malessere esistenziale quindi si sviluppa anche come una incapacità di godere di quello che la vita ti offre.
Quindi rimanere freddi davanti a tutto questo è anche un bene.
Perchè altrimenti avremmo fatto dell’ ennesimo musicista morto suicida un altro cristo e un altro redentore.
La sensazione che ho provato alla fine del film è stata quella dell’ inutilità.
E della noia.
E del fatto che un’ attesa così lunga non porti da nessuna parte.
Un film costruito sul niente. Un niente che in Elephant era la base sconcertante per la strage finale, qui solamente per un’ errare incosciente di un’ anima in pena. Che trova nella morte, finalmente, una via di uscita da se stesso.
Lo spettatore può rimanere giustamente dubbioso davanti a tutto questo e chiedersi il senso di quanto ha visto.
Un senso attribuile, forse, a una rigida interpretazione stilistica della storia o forse all’ assenza di tutto questo e a un nulla che attraverso una forma si vuole spacciare per un film.
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