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Le forze del destino

Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film

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La recensione su Le forze del destino

di EightAndHalf
4 stelle

Una volta finito di vedere “Le forze del destino”, si rimane turbati. Turbati per la quantità abnorme di cose che ci sono dentro, turbati per le pretese visive di Vinterberg, turbati per la performance attoriale di Claire Danes, turbati per quella sequela di eventi e azioni confusionarie e incomprensibili riprese con tale non chalance e tale tranquillità. Poi però torna in mente di chi stiamo parlando: Thomas Vinterberg, il regista di “Festen – Festa in famiglia”, e a quel punto si torna in sé. Ci siamo abituati ormai all’anormalità.
“Le forze del destino” ha fin troppo in comune con “Festen”, benché siano l’uno l’opposto dell’altro, nel genere, nella trama (se di trama in “It’s all about love” si può parlare), nella messa in scena. La provocazione è il fulcro di questo cinema “dogmatico” che nasce fin dall’origine da una (dis)armonia dei contrari, come quello di un dogma, di un progetto irrealizzabile, di un cinema che guarda la realtà e la sprofonda, di un cinema che la smetta con l’ipocrisia, nel 1995. C’era tanta ipocrisia nel manifesto del Dogma 95, ipocrisia che criticava ipocrisia, e gli stessi film Dogma non sono neanche un granché, al massimo accettabili, come “Festen” e “Italiano per principianti”. Qui a primo acchito siamo lontani miglia dal Dogma 95: addirittura lo sguardo di Vinterberg è patinato, preciso, pulito. È la storia, che ha sorvolato sulla normalità, sulla regolarità. Un cinefilo che si rispetti non dovrebbe lamentarsi delle stranezze cinematografiche, ma qui siamo davvero al colmo. Anche perché alla fin fine è tutto chiaro, perché “tutto riguarda l’amore”, e l’idea di un cosmo che si rivolta al tentativo di separazione di una coppia di quasi divorziati potrebbe anche essere accettata, ma è sempre una giustificazione piccola piccola per follie grandi grandi, per trovate illimitate e inaccettabili: in questi casi, qual è il limite che dobbiamo imporre alla nostra fantasia? Forse il discorso è più complesso, forse riguarda anche la messa in scena. Ecco: il film è in Cinemascope, e le inquadrature sono così normali da sfiorare il prevedibile. La storia è tutt’altro. Rieccoci con la disarmonia dogmatica dei contrari, la fonte di quello spiazzamento che il film genera negli occhi di uno spettatore. “Festen” provocava, raccontava una storia che, dopotutto, era abbastanza normale (almeno intelligibile!), ma la messa in scena era mossa, sporca, sconquassata e confusa, sgranata, forse evitabile. Certo, voleva creare lo sporco dal “pulito” borghese, voleva rovesciare tutto e mettere in luce il lurido. Forse fino a qui si può anche capire: ma in “Le forze del destino”, sogno infranto (e con tragedia indispensabile) di un Vinterberg molto convinto di sé, dov’è il lurido? Nella storia? Per il caos del cosmo? Ma se “tutto riguarda l’amore”! Allora qui siamo alla rottura del confine fra utopia e distopia, va tutto letto in una dimensione sentimentale altra, come si addice alla più strampalata delle storie d’amore. Alla fine però è tutto così finto e lascia così indifferenti da colpire per l’ostinazione e l’insistenza di farci ancora vedere la faccia attonita di Joaquin Phoenix per più di un’ora e mezza. Tanto valeva appendere la telecamera alla mano di un cameraman ubriaco e tenersi nel Dogma, piuttosto che raggiungere un onirico al limite del kitsch, e che forse soffre troppo di indecisione. È un film da evitare anche se lo si vuole leggere come allegoria sull’incomunicabilità, come il Dio laico Sean Penn che parla al telefono e non gli rispondono a voce, che è incapace di controllare le forze del destino come il suo aereo di scendere sulla Terra colpita da una nuova era glaciale. Forse solo quell’ultima scena, degli ugandesi che si tengono stretti ad un’amata Terra mentre spiccano il volo, forse solo quella scena si può salvare. E poi qualche altro dubbio rimane: a questo film preferiamo davvero l’inoffensiva catatonia de “Il sospetto”? Ma alla fine una sola cosa è certa: non siamo di fronte a un bel film, e anche senza bisogno di spiegarne il perché.
 

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