Regia di Graeme Clifford vedi scheda film
Lo star system la voleva bella e oca al pari di tante attrici dell'epoca, ma Frances Farmer non ci stava: figurarsi che a sedici anni aveva vinto un premio letterario con un saggio tendente a dimostrare che Dio non esiste, scatenando, già allora, la riprovazione degli ambienti retrogradi e puritani della città in cui era nata (Seattle). Così Frances, che già aveva abbandonato Hollywood una prima volta per dedicarsi al teatro sociale con la compagnia di Clifford Odets - legandosi anche all'autore - fece ritorno alla mecca del cinema, ma rifiutò di sottostare ai dettami delle compagnie cinematografiche, rimanendone stritolata. Vessata dalle autorità, si rifugiò nell'alcol; complice la madre, fu rinchiusa in diverse cliniche psichiatriche, dove fu sottoposta alle cure più astruse, a un numero imprecisato di elettroschock e perfino alla lobotomia (ma questo elemento è stato da alcuni smentito). Tutti questi mezzi, tesi a farne una larva umana, ne fiaccarono la resistenza fisica, ma non lo spirito ribelle. Morta a sessant'anni nel 1970, la Farmer fece in tempo a scrivere un'autobiografia nella quale raccontava le sue vicende e denunciava i suoi aguzzini. Il film di Clifford è, forse inevitabilmente, troppo lungo, ma si giova della notevole interpretazione di una Jessica Lange, forse al meglio della sua pur lodevole carriera. L'attrice americana non si risparmia niente, ma lo fa mantenendo la dignità che contraddistinse la vera protagonista dei fatti. Molto belli i duetti (o duelli) con Kim Stanley, che interpreta la madre di Frances.
Brava, bella e coraggiosa come il copione richiedeva. Probabilmente il vertice interpretativo dell'attrice americana.
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