Regia di Roger Michell vedi scheda film
In amore chi molla è perduto. Tutto sta scoprire chi molla per primo. E’ questo, in micro, il macro-messaggio del bel film del regista Roger Michell, L’amore fatale, tratto dall’omonimo romanzo dell’immenso Ian McEwan.
Michell realizza un thriller psicologico (facendoci, per fortuna, scordare di aver realizzato egli stesso Notting Hill), impastando, come fossero colori sulla tela, le sfumature dell’amore e della colpa. Ricalcando lo stesso tema dell’ossessione d’amore, presente in un altro bel suo film, The Mother, Michell, questa volta sembra come un pittore ossessionato dagli stessi colori. Infatti, le inquadrature iniziali e finali cos’altro sono, se non tele impressioniste, con tanto di piani obliqui ? Straordinaria la scena iniziale, quella dell’incidente con la mongolfiera, che diviene il momento fatale di un innamoramento tanto folle, quanto sincero e duraturo. A bordo del pallone aerostatico, sfuggito al controllo, c’è un bambino. Tutti i presenti accorrono per tentare di riportare a terra il pallone e salvare così il bambino e un uomo rimasto appeso alle corde. Purtroppo uno dei soccorritori muore durante le operazioni di salvataggio. L’impotenza, lo sconcerto e il senso di colpa sono i sentimenti che toccano nel profondo la coscienza di uno dei presenti, Joe Rose, giornalista scientifico, razionale e laico, la cui vita verrà sconvolta dall’incontro con Jed Parry, un altro dei soccorritori, il quale pensa che l’episodio lo abbia legato per sempre a Joe, tanto da dichiarargli il suo amore. Jed, tra l’altro è un ragazzo in preda a crisi mistiche, che da subito parla di fede e della sua volontà di convertire anche Joe a Dio, tanto che questi riceverà, in piena notte, la prima di mille telefonate. Inizierà così la persecuzione amorosa di Parry.
Cos’è, allora, il vero amore? Dov’è nascosta la verità? Chi stabilisce ciò ch’è reale da ciò che non lo è? Sono queste le domande senza risposta a cui il protagonista crede di saper rispondere, sicuro ed orgoglioso della propria teoria biologico-razionalista. Joe personifica l’uomo contemporaneo, shakespeariano-pirandelliano, costretto a sopravvivere; l’inetto di fronte alla triste realtà della vita e dell’amore, a cui basta un attimo, un incidente, uno scherzo del fato per raggiungere la consapevolezza dell’illusione, con l’inevitabile fallimento delle certezze, dei suoi sentimenti e della sua stessa identità. Troppo arduo il compito che si era prefisso Joe: la possibilità di realizzare una biologia dei sentimenti; sarebbe come voler spiegare con la semplice ragione l’amore, dal momento in cui tutti riconosciamo l’impossibilità che la cosa possa realizzarsi.
Ottima l’introspezione dei protagonisti, sia quella allucinata di Daniel Craig, altrettanto quella più vicina alla pazzia di Samantha Morton. Entrambi gli attori, in stato di grazia, sebbene di ognuno, alla fine si potrebbe raccontare come la storia finisca alla maniera di tutti insieme disperatamente.
Di grande efficacia l’opera scultorea dello stesso regista, la sua insistenza sui volti scolpiti, duri e scalfiti fin nell’interno, attraverso cui ci fa passare dalla biologia alla meccanica (materialità) dei sentimenti, anche quelli più intimi, celati sotto la dura roccia della nostra umanità.
Il finale è tutto affidato all’immagine (iniziale) di una bottiglia di champagne. L’incarto esterno del tappo è ancora intatto: evidentemente è vero che “tutte le cose hanno un significato per qualcuno. Tutte le cose accadono per un motivo”.
Giancarlo Visitilli
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