Regia di John Huston vedi scheda film
In questa contro-saga del pugilato, l'atmosfera sonnolenta della provincia californiana assorbe i colpi sordi di una rabbiosa rinuncia. Non sempre la resa è passiva rassegnazione, a volte, come in questo caso, è un furioso dibattersi nell'impotenza, prendendo a pugni il vuoto avvertito come una prigione. Fare a botte sul ring (la scelta di Billy Tully) è un'alternativa rispetto a prendersela con la vita (l'atteggiamento di Oma), ma entrambe le opzioni sfociano nell'autolesionismo. Proiettarsi nelle speranze di un altro (in Ernie, giovane promessa della boxe) oppure sottomettersi incondizionatamente alla volontà altrui (quella di Earl, violento compagno di Oma) sono due forme di disperata generosità, che tentano di volgere al positivo lo sconforto ed il rimorso per i propri fallimenti: quando si è perso di tutto, si cerca di strappare ancora qualcosa al mondo, fosse anche un misero brandello di senso. Il fuoco di un tempo è ridotto ad un tenue brillio di brace, che pure non vuole spegnersi: è questa l'origine di quella luminescenza vivida e fremente che, in questo film, promana dai personaggi, facendo da crepuscolare contrappunto alla fredda solarità degli sfondi hopperiani. La grande luce è il mondo, che, però, non risponde ai richiami che vengono da dentro, dalle case, dai motel, dalle palestre, dai bar, dove l'uomo lotta, ama e si confessa. In questa tensione tra esterno e interno, la suggestione pittorica langue, come poesia disillusa che si proietta scialbamente in prosa; l'essere afferma la propria presenza, però si fa ruvido e graffiante, trascurando ogni pretesa di armonia. La durezza di Fat City è quella di un volto corrugato dal pianto, però asciutto di lacrime, che diventa una maschera di guerra ed una corazza contro il dolore della sconfitta.
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