Regia di King Hu vedi scheda film
Nella Cina della dinastia Ming (1457) gli Eunuchi controllavano il potere. Uno di loro, Tsao Shao Chin, ha sconfitto con successo il suo rivale politico, il generale Yu, il quale viene decapitato e i cui eredi saranno esiliati. Per evitare che la stirpe del nemico prosegua, Tsao incarica la polizia segreta di eliminare i figli di Yu nel desolato terreno del Dragon Gate Inn. I killer, quindi, attendono le prede in una locanda del posto, ma, all'improvviso, arriva l’esperto di arti marziali Xiao (Shi Juan), un misterioso guerriero che, assieme ad altri due spadaccini (Miss Huei e il fratello, impersonati rispettivamente da Shang Guan Lingfeng e Han Hsieh, anch’essi giunti inaspettatamente nella taverna), esprime ostilità verso i militari di Tsao. È un caso o qualcuno vuole ostacolare gli intenti del crudele comandante?
Dopo aver lasciato lo "Shaw Brothers Studio" King Hu si trasferì nel Taiwan, dove fondò la "Union Film Company". Questo gli permise di realizzare “Dragon Inn” dando sfoggio ad una abilità di direzione ormai matura. La location della bettola, con le sue mura fatiscenti e le finestre di carta, offriva un panorama ideale per erigere una lotta fervente tra il bene e il male. Incentrandosi essenzialmente sugli scontri all’arma bianca Hu cercò di imbastire una messa in scena estrosa, la quale conciliasse convincentemente elementi razionali e soprannaturali (i quali, frequentemente, sono solo suggeriti). Un’accorata commistione tra spiritualismo e ruvido realismo. E mentre la mdp scivola sul paesaggio collinare, la pellicola regge una narrazione snella, permettendo all’astante di concentrarsi sul poliedrico ricettacolo degli accattivanti personaggi: Hu sottolinea quanto le piccole emozioni motivino o destabilizzino la missione dei protagonisti, relegando solo delle brevi parti ai fanciulli che hanno deciso di proteggere. Infatti, si ha la sensazione che il pericolo per i màrtiri passi in subordine rispetto ad alcuni aspetti più peculiari, evidenziati da una maggiore pregnanza, come il senso dell’onore e l’insensibilità alla distrazione manifestata dagli “xiake”, o la brutalità degli avversari, illustrata con sferzante nonchalance… Le circostanze che precedono i combattimenti vengono comunque costruite impiegando climax inebrianti, compitati da un taglio efficace, grazie al quale non ci si annoia. La coralità persistente (non c’è un vero leader) e il tocco leggero costituiscono i componenti chiave in grado di dispiegare l’energia necessaria ai fulgidi risvolti action; i piani sequenza espletano coreografie dal fascino abbacinante, collegate tramite un montaggio armonico che alterna la violenza fuori campo con suggestive dinamiche metafisiche. Suadente l’attenzione prossemica per il linguaggio spesso non verbale; geniale il sound design extra-diegetico basato su rumori artificiali (il becchettio che scandisce sguardi e movimenti). In “Dragon Inn” la plasticità compositiva del dispositivo cinematografico è accordata alla volubilità delle figure umane. L’approccio di Hu, inoltre, cambia radicalmente tra gli attimi di languore e i frangenti frenetici, senza sacrificare i dettagli e la precisione dei congegnali angoli di ripresa. La prospettiva delle battaglie muta in maniera percepibile dagli spazi geometrici dei claustrofobici interni agli esterni ambientati nelle steppe sconfinate dell’area desertica, ove si utilizzano zoom rapidi e sporadiche accelerazioni di fotogrammi. La perizia formale viene pertanto suffragata da una cosmesi cangiante di Hui-Ying Hua, dai colori rutilanti dei bellissimi costumi e dagli arrangiamenti epici (nonché stringati) di Lan-Ping Chow. Le prove attoriali, fortunatamente, non stonano col resto. Mediante un'allure dinoccolata, i salti svettanti, e le pose ieratiche, Juan, Chien Tsao (Wu Ning) e Guan Lingfeng (detta Polly Kuan), oltre ad essere dei performer navigati, mantengono persuasivamente quell’aura di enigmaticità tipica dei main charachter che comparivano nei western di Sergio Leone. Particolarmente riuscite anche le interpretazioni dei villain Han Ying-chieh (Mao), Miao Tien (Tung) e ovviamente dello spietato Tsao di Ying Bai. Forse qualcuno potrebbe obiettare sull’irritabilità priva di ermetismo e dagli atteggiamenti “demodé” di quest’ultimo; ad ogni modo, visto che il racconto risale praticamente a cinque secoli fa, il tratteggiamento non molto sfaccettato che ne determina il perfido profilo rimane sicuramente calzante.
Un capolavoro? Sì, indubbiamente. Il miglior wuxia di tutti i tempi? Probabile. Qual è il dilemma? Eh! Trovare una versione con i sottotitoli in italiano. Un’impresa da cavalieri erranti…
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