Regia di Stanley Kramer vedi scheda film
Maestro del cinema liberal americano, Stanley Kramer esce da Vincitori e vinti, e cioè dal processo alla barbarie nazista, ed entra ne La nave dei folli, e cioè all’origine della barbarie. Classificati sbrigativamente come varianti del genere Grand Hotel, il primo ha trovato un proprio posto nella storia in quanto ammirevole sintesi di ambizione produttiva ed aspirazione civile, complice il magnifico cast; il secondo, invece, è stato più o meno rimosso dalla memoria. Il motivo, credo, è individuabile nella sua natura assolutamente ibrida: questo microcosmo che naviga verso la decadenza morale è sì una produzione all stars ma neanche troppo (coinvolgimento di attori europei di successo, divi in caduta libera e solidi caratteristi) ed ha certamente un forte messaggio civile didascalico quando non problematico.
È un film essenzialmente basato su due colonne: il fascino rapsodico della frammentarietà e le prove recitative degli attori. Se è vero che manca una storia che leghi tutti gli episodi nell’ambito della sua denuncia intellettuale, è altrettanto vero che non mancano occasioni per godere dell’esemplarità delle singole vicende proprio in funzione della sua cornice. Accanto ai passeggeri tedeschi dominati dalle più ovvie e legittime questioni di adesione o rifiuto dell’annuncio nazista (dal ricco fieramente antisemita al sofferto marito di un’ebrea), troviamo gli americani impegnati in problemi relativi tutto sommato alle proprie individualità (la vecchiaia non accettata, l’invidia reciproca, i demoni dell’insuccesso), forse davvero incapaci di capire il fermento socio-politico.
Gli unici a cercare in un amore impossibile la via di fuga alla sofferenza privata che si riversa nella dimensione pubblica sono, per certi versi, la contessa spagnola mandata in esilio e il malato medico di bordo tedesco (Simone Signoret e Oskar Werner: furono nominati agli Oscar come migliori protagonisti pur restando in scena per un totale di venti minuti), i soli che comprendono tristemente il dolore perfetto dell’incomprensibile. Il vero personaggio centrale, però, è probabilmente il nano Michael Dunn che intuisce, capisce, ridicolizza o compatisce tutti coloro che non si rendono conto della deriva a cui li sta conducendo quella nave di disperati. Un mèlo corale un po’ raffreddato, forse senza un vero collante che lo renda organicamente compiuto al di là del suo intento storico-politico. Ultimo film di Vivien Leigh, dal volto malinconicamente devastato dagli abusi.
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