Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Il boss della Yakuza Anjo scompare e nessuno sa dove sia andato. Neanche immagginano che sia stato brutalmente massacrato da Ichi (Nao Õmori), un ragazzo timido che dietro un’apparenza mite nasconde un'esplosione di rabbia davvero inaudita. Alla ricerca di Anjo si mette Kakihara (Tadanobu Asano), il suo vice, un sadico torturatore che gode solo al cospetto della violenza più estrema. La caccia ha inizio, e mentre l'inafferrabile Ichi fa fuori uno alla volta tutti gli uomini della banda, Kakihara si scopre sempre più ossessionato dall’infallibilità di questo killer misterioso. Intanto nell'ombra si muove Jijii (Shinya Tsukamoto), un uomo apparentemente insignificante che sembra manovrare ogni cosa con fredda precisione. Con l'intento di avviare e dirigere un gioco al massacro che non vuole superstiti.
Il cinema di Takashi Miike è una materia contundente totalmente sconsigliata ai deboli di stomaco. Un qualcosa di assolutamente alieno rispetto alla generalità delle produzioni correnti, non tanto perché alienante e l'oggetto del suo rappresentare, ma per il modo divertito e disturbante insieme con cui si ostina a dissimulare se stesso in esibite escandescenze splatter. Sembra muoversi sornione nel assicurante spazio del “genere”, per poi dimostrarsi padrone totale del mezzo e innalzarsi sopra le vette grammaticali del linguaggio cinematografico con irrisoria facilità. Quando conviene farlo e quando occorre dimostrare di esserne capaci. Takashi Miike si diverte a giocare con il pubblico, mettendo chiaramente alla portata di tutti l’esibizione di quei trucchi che il cinema tende artificiosamente a tenere nascosti. È un effetto della sua bulimia cinefila tutto questo, che conosce pochi eguali nella storia del cinema (non solo contemporanea).
Ecco, tra i suoi tanti film, “Ichi the Killer” (liberamente ispirato al manga omonimo che tanto successo ha avuto in Giappone) è uno di quelli che meglio rappresenta il lato della sua politica più orientata verso l'esibizione eccessiva della violenza ferina. È il suo modo di offrire uno sguardo "altro" all’analisi "post-modernista" della società "globalizzata" quello di mostrare senza filtri di sorta quanto l'essere umano possa essere schiavo dei suoi bassi istinti, e quanto un innato spirito di sopravvivenza possa essere alimento a dismisura dalla presenza invasiva del malaffare. Così come è un suo modo di farsi beffa di questa evidenza speculativa quello di mostrare come la violenza estrema finisca per auto annullarsi nella caricaturale rappresentazione di se stessa. In “Ichi the Killer” sono tutti schiavi del dolore, di quello che subiscono e di quello che producono, e non può essere altrimenti visto che la violenza si muove con fare circolare e ritorna a macchiare di rosso sangue il corpo di ognuno con tutti gli interessi del caso. Soprattutto dei due protagonisti, due esseri “mutanti” che si rincorrono l'un l'altro muovendosi come su una giostra che si fermerà solo per far scendere l'unico superstite. La verità è che la morte arriva senza nessun motivo reale, se non quello che nasce dal vizio criminale di progettare la morte di un essere vivente con gratuita superficialità. È il modo che usa Takashi Miike di farsi beffa della Yakuza, che è messa all’angolo da un misterioso piano vendicativo, ridotta a fare da pedina di scambio in un gioco al massacro deciso da altri, totalmente decontestualizzata rispetto a tutte le implicazioni sociali ed economiche che certamente gli riguardano. Perché l'autore giapponese affida ad un beffardo burattinaio il compito di muovere i fili, con l'intento di far incontrare tutti in un campo di battaglia dove non si fanno prigionieri. Dove l'etica del successo da rincorrere ad ogni costo è messo in riga dall'estetica della forza bruta. Il resto lo fa la sua regia visionaria, assecondata da un montaggio febbrile, che inserisce spaccati narrativi che grondano frattaglie di corpi umani dentro inquadrature lisergiche che cercano un'armonia compositiva nell’insensata rappresentazione del male. La trama esiste pure, e con una sua lineare identità narrativa anche, ma in mano a Takashi Miike sempre essere solo un pretesto occasionale, buono solo per dare libero sfogo ad una divertita sarabanda di personaggi e situazioni estreme. Chi, se non lui, poteva pensare di iniziare un film facendo scivolare i titoli di testa in un bagno di sperma ; concepire una affilatissima lama attaccata al tacco di uno stivale con la quale fare a pezzettini il malcapitato di turno ; inventarsi un sadico torturatore che gode nel subire violenze e che sulle guance ostenta due lunghe cicatrici che gli aprono la bocca come se fosse uno squalo ; far uscire da dei vestiti modesti di un uomo dall’apparenza esile e insignificante il corpo di una specie di Hulk, capace di spezzare il collo di un uomo con irrisoria facilità. Il fatto è che Takashi Miike prova piacere nel sublimare nella violenza esibita il suo amore bulimico per l'arte di fare cinema. Ama sconfinare per perlustrare altri mondi creativi, e fare dei corpi mutanti e mutevoli dei suoi personaggi la chiave di lettura del decadentismo valoriale in fieri. Così è “Ichi the Killer”, un fumetto in “celluloide” che giustifica un granguignoleschi bagni di sangue la chiara intenzione di riderne allegramente.
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