Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Sopravvivere in un mondo assurdo e scassato. Diventare qualcuno, per puro caso, pur non essendo nessuno. Essere il protagonista di una storia inverosimile, violenta e senza trama, che non prende senso nemmeno alla fine. È questo l’universo di Takashi Miike, che in questo suo “Viaggio in Paradiso” trapianta lo spirito vagamente goliardico della piccola malavita giapponese nella cornice esotica delle Filippine, in mezzo ad una giungla tropicale che avvolge una prigione sovraffollata, sede di una sinistra e sudicia anarchia. Kohei Hayasaka è un uomo d’affari nipponico che vi finisce per essere stato trovato in possesso di un chilogrammo di eroina. E, in un battibaleno, quel giovane dalla faccia e dal vestito puliti si trasforma nel centro di un vortice in cui tutto ciò che conta è acquisire denaro e potere, non importa come. Egli stesso, d'altronde, è un rappresentante altolocato di quello sporco gioco: sotto mentite spoglie è, infatti, un piccolo emissario della corruzione internazionale, inviato in missione segreta per consegnare fondi neri a sostegno della campagna elettorale del presidente in carica. Tuttavia, priva di essere rinchiuso in quel buco infernale, non aveva mai toccato con mano la materia lurida che è, insieme, il simbolo figurato ed il concretissimo prodotto finale di una vita basata su squallidi appetiti. L’istinto, in un contesto selvaggio in cui non esistono significati traslati, è l’isteria del brutto, del maleodorante, della sostanza organica che marcisce perché non può guarire dai suoi mali congeniti. Bisogna tuffarcisi dentro, e toccare il fondo per poterne risalire, disgustati ma rinsaviti. Kohei deve nuotarci in mezzo prima di essere in grado di uscirne, rinnovato dalla nausea per il tradimento, che è, in assoluto, la pratica più umiliante per l’essere umano. Prima di questa convulsa catarsi, è bene che gli eventi si contorcano, arranchino, sbandino a bordo di quello sgangherato carrozzone che è la vita della gente povera ma non per questo “comune”, non perbene, però incapace di provocare grandi danni. I personaggi che fanno da contorno a Kohei sono esseri malandati, fuoriusciti dalla normalità, e votati alla stranezza come ad una malattia incurabile. Con un occhio all’amore ed uno alla perfidia, interpretano questo strabismo morale come un equilibrismo claunesco, che sguazza nel fango essendo lieto di inzaccherarsi. È la loro rustica ribellione all’impossibilità del bene assoluto. È il loro modo di far capire che non ci stanno, anche se, visto che sono in ballo, tanto vale mettersi a ballare. Ed è così, zigzagando tra le intricate vie di una realtà in cui barbarie e civiltà fanno indecorosamente a botte, che a ciascuno di loro può capitare di trasformarsi nell’eroe della situazione. Ed un violentatore di bambine può convincere i suoi assassini della propria immortalità. The Guys From Paradise è un viaggio pazzesco intrapreso dal riscatto morale, che, sotto la spinta della necessità, corre a perdifiato senza stare attento a dove mette i piedi: si fa largo inciampando e macchiandosi la coscienza, fino all’epilogo, che archivia la brutale tragedia come uno scherzo salvifico che scalda parzialmente il cuore, grazie al salutare schiaffo, sempre un po’ sarcastico, di un irriverente happy ending.
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