Regia di Takashi Miike vedi scheda film
White Collar Worker Kintaro (noto anche come Salaryman Kintaro) è un film giapponese del 1999 diretto da Takashi Miike.
Sinossi: Il giovane Kintaro è l’incarnazione perfetta del tipico salaryman giapponese dedito alla causa aziendale e pronto a tutto pur di esaudire i desideri del suo boss, compreso dormire in ufficio o lavorare come un dannato a rischio di lasciarsi la pellaccia.
Il ragazzo inoltre deve prendersi cura di suo figlio piccolo; alternarsi fra lavoro vita privata non è assolutamente semplice, in aggiunta società rivali minano la sua tranquillità famigliare al punto da costringerlo a ricorrere a vecchie e poco ortodosse abitudini: menare le mani…
Nel 1999 l’eclettico ed instancabile Takashi Miike realizza la bellezza di cinque lungometraggi, tirando fuori dal cilindro una serie di capolavori stile Audition, Dead or Alive o Ley Lines e fra queste autentiche perle trova pure il tempo di adattare per il grande schermo il celebre manga Salaryman Kintaro di Hiroshi Motomiya, già trasportato in anime dal regista veterano della Toei Tomoharu Katsumata.
Ad una lettura superficiale Salaryman Kintaro potrebbe essere definito un film minore del regista e dopo tutto le pellicole sopracitate risultano sicuramente superiori ma questo non significa che il film in esame sia superfluo o inutile.
Salaryman Kintaro è possibile suddividerlo in due tronconi distinti e molto diversi.
Nella prima parte Miike realizza un vero e proprio documento, impregnato d’ironia, sulla vita lavorativa del tipico salaryman giapponese di fine anni Novanta; è un periodo complicato in terra nipponica e la tremenda crisi finanziaria ha colpito soprattutto i classici colletti bianchi ora più che mai numeri insignificanti costretti a turni massacri e bassi stipendi.
Tutto ciò è in qualche modo riscontrabile nel film di Miike, il quale non rinuncia alla sua vena critica e politica sempre presente nel suo cinema e quasi mai evidenziata.
Tornando sulla figura del salaryman risulta interessante evidenziare come quest’ultimo sia ormai totalmente assorbito dall’azienda presso cui lavora, rischiando una spersonalizzazione totale; ad esempio Kintaro quando si presenta a qualcuno esclama subito di essere un dipendente della ditta Yamato, alludendo quindi ad una perfetta e pericolosa simbiosi fra società ed individuo.
Ad un’analisi così dettagliata sulla vita del salaryman non corrisponde però una messa in scena accattivante, risultando invece priva di mordente con un Miike in versione “pilota automatico” rinunciando al suo stile estroso e irriverente. Inoltre da rivedere la gestione di alcuni personaggi che appaiono e scompaiono senza nessun nesso logico, tuttavia non disperate in quanto nella seconda parte dell’opera l’autore cambia completamente registro stilistico.
Nell’ultima mezzora oltre alla presenza di alcuni topoi tipici della sua poetica (l’importanza della famiglia) troviamo delle vere e proprie invenzioni registiche degne del miglior Miike.
Partiamo dal pestaggio subito dal protagonista che inizia in medias res con il povero Kintaro già ridotto male. Il suo viso è tumefatto e dovrà ancora prendersi una bella dose di mazzate; detto questo in riferimento alla scena Miike opta per un long take con macchina fissa posizionata sulle rampe di una scala mostrandoci senza tagli l’efferata colluttazione, fin quando non entra in scena il boss del ragazzo pronto a risolvere la situazione.
Impossibile poi non menzionare la sequenze dell’attentato proprio ai danni di quest’ultimo: l’uomo si appresta ad aprire un pacco e tramite una veloce zoomata sull’oggetto capiamo che si tratta di una bomba, nell’immagine successiva il regista si sofferma sullo sguardo disorientato del soggetto congelandolo in un freeze frame per poi estrapolarlo dalla diegesi ed imprimerlo su di una pellicola che si sussegue sempre con la stessa immagine fino a deformarsi e prendere fuoco (combacia con lo scoppio della bomba). Pazzia pura targata Miike.
Meritevole anche la ripresa successiva tutta giocata su di una perfetta gestione della suspense di matrice hitchcockiana aromatizzata con guizzi alla Miike: improvvisi stacchi di montaggio seguiti da ellissi ed interruzioni del sonoro.
Caciarone ed estremamente godibile pure il finale in pieno stile manga, con il regista che ci regala nuovamente bagliori della sua tecnica, chiamando in causa questa volta la macchina mano (must in Miike) atta a riprendere un convulso scontro di combattimento corpo a corpo.
Salaryman Kintaro non sarà un capolavoro ma è pur sempre un film di Takashi Miike meritevole d’attenzione e soprattutto utile a comprendere la grandezza di un regista, in grado di dirigere qualsiasi cosa garantendo sempre estro e cratività.
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