Regia di John Maybury vedi scheda film
Cinque-stellucce-cinque, illuminano una tomba/caverna. Come la può mostrare un angloregista che dopo aver rullato dolly e piani-sequenza sulla vita di Francis Bacon (“Siamo potenziali carcasse”, l’artista dice e testimonia in arte) e col suo feticcio d’attore, tale Daniel Craig ancora in odore di anonimìa (è George Dyer in “Love is the devil” ed è un volto tumefatto, spaccato, martoriato in “Museum of memory”, documentario commissionato dalla BBC), dicevamo, a questo angloregista un bel dì s’ode squillare il telefono. “Salve sono Steven Soderbergh, parlo con John Maybury?”. John riattacca. “Non mi è mai piaciuto chi mischia le burle con il mio lavoro”, pensa. Il telefono intona la melodìa nuovamente. “John, sono davvero Soderbergh… qui a L.A. è una magnifica giornata di sole e lì a Londra suppongo piova, visto il tuo cattivo umore! Ascolta, ho visto il tuo lavoro su Bacon… Ottimo, davvero ottimo. Io e George volevamo proporti di lavorare a Hollywood. Che ne dici?”. Ed è proprio così che il nostro buon Giovanni riceve in regalo ed in dote, una bozza di 160 pagine che subito si scola d’un fiato. E’ magnifica. Parla di un reduce del Vietnam, tale Jack Starks, che viene ‘curato’ dalla sua apparente follia in un istituto psichiatrico dove si sperimenta… la follia! Ma il Vietnam è roba lontana nel tempo, già ultra-consumata in ottime cose di ottimi registi con ottime storie mandate a mente da intere generazioni di pessimi spettatori; Maybury e Massy Tadjedin, la sceneggiatrice a cui Soderbergh e George Clooney hanno affidato il compito di limare e piallare l’idea narrativa iniziale, hanno l’intuizione felice di portare tutto in un’epoca molto più vicina a noi. Guerra che sentiamo sorella. Non zia o lontana parente. Guerra che abbiamo visto screziarsi nei nostri condotti televisivi mentre noi si cenava a pollo e patate, su tavole di tessuto pregiato preso un tot al chilo nei mercatini rionali. Così John Starks diventa un reduce di “Desert storm” ed il film prende forma e odore in un’epica serata che i due (Maybury&Tadjedin, oramai affiati writers) non dimenticheranno mai. E’ la notte degli Oscar del 2003; mentre il rutilante spasmo meta-musicale di Rob Marshall sbanca la giuria, tra uno spot pubblicitario e l’altro si avventano dentro le pupille dilatate dei nostri due autori frames bellici, immagini in visione notturna, target, fumi acri di Tomahawk mandati dal mare a straziare e dannare. Non un caso che la ‘serata delle statuette’ abbia in serbo riconoscimenti per “Gangs of New York” e per “Il pianista”. Non un caso che il ‘corpo attoriale’ del pianista in questione sia Adrien Brody. “La realtà stava imitando il nostro film”, ricorda adesso Maybury. Questa è, plausibilmente, la nascita di “The jacket”; ma cos’è “The jacket”? Un film-vampiro, di sicuro. Un’opera che traccia il costato scarificato (costola a costola, incubo d’incubo, urlo per urlo, angoscia in angoscia) di un ‘tempo unico’, tanto ne toglie di lùmina ematica e tanto ne rende. Un tempo ‘assoluto’ e un ‘ossuto’ spazio (grigiore, sangue, neve, neve ed ancora neve) che prende la gola come un doloroso tragitto spaziotemporale che adocchia brandelli ‘populisti’ della eterna “Jetée” markeriana, che spolpa e rinsecchisce fascinazioni dalla versione postuma del ‘sommo capolavoro’ che l’onesto Terry Gilliam fece a modo suo più di trent’anni dopo, che parla il linguaggio soft-biblico che fu, ad esempio, del mai dimenticato “Jacob’s ladder” e che, soprattutto, porge l’altra guancia ad un melò di filiazione sirkiana… Ecco, lo dissi un attimo prima di essere lapidato! Ma questo film è davvero un figliolo di Sirk, di un Sirk postdigitale e gelato da tanto nitore innevato, da tale lamina (ag)ghiacciante che appare tutt’altra cosa, infondo. Ma quel filo di sangue (“Hey, tutto bene?”, “Benissimo”, “Hai un brutto taglio… qui”, “Sì, sì… sono scivolato ma sono ancora vivo”) che cola sul collo di Body-Brody è Sirk! Nient’affatto Cronenberg o un Nolan a basso voltaggio, o uno di quei nuovi rampanti in dolce zuccherosa anabasi. Vi dico che è Sirk! Lo garantisco, io che di questo film sono il più esagerato, millantatore, fasullo, incorreggibile innamorato che voi possiate trovare sulla faccia del pianeta Terra… “Avevo 27 anni la prima volta che sono morto” e comunque: cinque-stellucce-cinque, illuminano una tomba/caverna.
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