Regia di Paul Weitz vedi scheda film
Con una colonna sonora morbida, spalmata su tutta la durata del film come un tappetino musicale (come già quella di Badly Drawn Boy in About a boy, firmato dal regista assieme al fratello Chris), In good company di Paul Weitz si presenta come una commedia agrodolce, girata con quello stile sufficientemente neutro che molto giova alla funzionalità comica di scene e attori.
È la storia di una serie di tradimenti sentimentali su una base da 'commedia del lavoro': una rivista sportiva viene assimilata (più o meno come fanno i Borg di Star Trek) da una grande multinazionale e la sua "filosofia" viene riletta nei paradossali termini di sinergia industriale. Il capo delle vendite degli spazi pubblicitari, Dennis Quaid, si trova così sull'orlo del licenziamento e sottoposto, con rabbia, imbarazzo e reticenza, ad uno squaletto rampante con la metà dei suoi anni (Topher Grace).
Il copione non lesina critiche al sistema, all'assurdità delle politiche economiche su vasta scala, alla vanità di far soldi con il solo gusto dell'efficienza del bilancio. Eppure il tono rimane leggero e non mancano le occasioni per sorridere e ridere grazie alla commistione tra l'ambientazione, seria, nella redazione della rivista e gli spunti da commedia sentimentale che si sviluppano attraverso il personaggio del managerino. Emotivamente sfigato, questi non riesce a capire la felicità domestica dell'anziano collega, gliene chiede addirittura il segreto ("Basta trovare la persona giusta con cui fare il nido"), si invita a casa sua per non rimanere da solo a cena, si innamora addirittura della figlia, Scarlett Johansson. Il ragazzo rimbalza frastornato dalla moglie che lo abbandona alla ragazza che lo seduce con leggerezza adolescenziale ma poi lo lascia senza dolore, dalla sterile efficacia manageriale all'empatia con ogni interlocutore sino all'inaspettato licenziamento, ma non riesce mai ad afferrare il senso delle cose. O il loro valore. E in questa ricerca, senza in realtà capirla, abbandona tutto, ma per lo meno si sente meglio.
Senza retorica (anche se rischia il panegirico della famiglia perfetta), senza politica (ma le stilettate al simil-Murdoch potrebbero essere valide in ogni contesto, anche italiano), senza giungere ad essere un capolavoro, In good company è una valida commedia umanista, piacevole da vedere, eppure non superficiale.
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