Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Finzione reale. Un ossimoro facile ma efficace. Al quarto film Kim Ki-Duk cambia registro, e realizza un thriller inquietante al limite del paranormale, che alterna saggiamente riprese professionali e riprese amatoriali per giostrare lo spettatore fra più realtà più o meno fittizie. Sono realtà intercambiabili, realtà disperate di ingiustizie e violenze, di maschilismo e sottomissione: un miscuglio delle prime care tematiche di Kim, riorganizzate e poste su una dimensione diversa, ovvero quella dell’arte che parla a sé stessa. Se nei colori e in piccoli riferimenti già nei film precedenti (“Crocodile” e “Birdcage Inn”) Kim voleva realizzare piccoli discorsi meta-artistici, qui questi discorsi diventano il punto focale di una riflessione tutt’altro che scontata sul potere dell’immagine, non tanto sulle emozioni dello spettatore, ma sulla realtà stessa. La prima cosa che dimostra simile interpretazione è il modo in cui il maestro coreano gioca con la sua storia e con i suoi personaggi, ponendo i suoi personaggi in un limbo metafisico in cui il protagonista, un pittore di strada, viene come costretto a uccidere i nemici di un uomo (o in generale dei “colpevoli”). Quest’uomo in qualche modo lo ipnotizza attraverso gli occhi di una cinepresa, con l’aiuto di una ragazza. Ma non è una semplice successione di omicidi, quella a cui è istigato il protagonista, perché, di volta in volta, cambiando “ritratto” o situazione, egli prende identità diverse (o forse l’identità di quell’uomo?) e dunque viene riconosciuto dalle sue vittime. Così, per esorcizzare la sofferenza di un’esistenza passata nella sottomissione e nell’ingiustizia, si prende un gran numero di rivincite, con una violenza sempre più grottesca e impulsiva. Lo sguardo amatoriale (ancora più invasivo e “inquietante” che in qualunque horror POV di oggi) si muove senza logica, entra negli anfratti, spia gli omicidi, come se la misteriosa ragazza che fa da cameraman scomparisse, e si unificasse all’immagine stessa. E nel frattempo lui, il protagonista, impossibilitato a interrompere questa carneficina dalla presenza opprimente (e onnipresente) della ragazza con la cinepresa, diventa, più che “un personaggio in cerca d’autore”, “un essere umano in cerca d’identità”, un essere umano che prende spunto da realtà controverse e tutte spaventosamente simili fra loro e le riproduce come un pittore riproduce il volto di una persona. Non è un caso che tutti i suoi clienti, vedendo il loro ritratto, si dicono insoddisfatti (come di una realtà troppo cruenta), e strappano quello che potrebbe avvicinarli alla consapevolezza della verità. Tutti gli uomini comuni, limitati dalla loro identità definita, si allontanano senza saperlo dalla verità; gli artisti (non tutti: pittori, soprattutto, ma non un fotografo a metà film) riescono a uscire dagli schemi, e a riproporre illusioni che non possono essere altro che vortici immani di violenza. Il sogno è stato contaminato, è diventato incubo violento, triste riproposizione del reale. Allora tanto vale tornare alla realtà, e prendersi le responsabilità delle proprie azioni (il venditore ambulante che decide di vendicarsi), sperando che la realtà, in tutta la sua crudeltà quasi maniacalmente ricreata, sia soltanto un film. Il finale arriva inaspettato, divertito, impressionante. Tante cose dette con così tanta semplicità.. un grande Kim Ki-Duk per un film che rischia di essere dimenticato.
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