Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Un giovane ritrattista viene bullizzato da una banda di taglieggiatori mentre disegna nel parco. Una giovane donna con telecamera riprende la scena e lo invita a seguirla in un teatro dove viene ridicolizzato da un uomo, forse un attore. Costui mette in scena le vessazioni subite dal giovane, come se già conoscesse le dolorose vicende della sua infima esistenza. I due recitano un unico dramma compenetrandosi nello stesso personaggio. L’attore incita il giovane a vendicarsi di chi l’ha sottoposto a soprusi e umiliazioni facendola franca.
Con un omicidio che inscena la morte della propria pusillanime codardia inizia “Real Fiction” opera quinta del compianto Kim Ki-duk. Un film duro in cui vita e finzione si confondono continuamente. Bastano poche scene per entrare nell'universo del maestro coreano. Pittore nella Parigi degli anni Novanta e appassionato di cinema grazie a Carax, Demme, Annaud. Una matita da disegno ed una macchina da presa sintetizzano le sue passioni e la sua profonda inquietudine.
Sul palcoscenico l’esistenza del giovane ritrattista scorre nelle parole taglienti dell’attore che sciorina, uno dopo l'altro, i fallimenti del giovane interlocutore. Il datore di lavoro lo sottopone a condizioni di lavoro indecenti. L’ex fidanzata l’ha lasciato per sposare il migliore amico di lui, la donna con cui sta lo tradisce con i clienti del negozio di fiori. Un militare di grado inferiore, ma senza scrupoli, gli ha procurato una cicatrice, durante la leva militare, come conseguenza di un atto di nonnismo. Un poliziotto l’ha torturato, senza un briciolo di compassione, durante un'indagine per stupro, salvo lasciarlo libero all’arresto del vero colpevole.
Sul palcoscenico della vita la rabbia ha sparato il colpo che ha ucciso la coscienza e le sue rimostranze. Il ragazzo, Na il suo nome, esce da teatro tracotante d’ira pronto a recitare il ruolo di vendicatore. Non ha più alcun freno inibitore ed ha messo fine alle obiezioni della propria razionalità. Ora può somministrare la giusta punizione a chi ha peccato contro di lui.
La giovane donna lo segue con la camera a mano filmando la brutalità di chi esercita la vendetta confondendola con la giustizia.
Kim ki-duk usa la camera della ragazza per raccontare la violenza del giovane Na, una violenza repressa che sfocia con calcolata cattiveria per punire la malignità di un’umanità corrotta e indifferente al dolore provocato. Ma il cavaliere solitario è solo una rappresentazione dell'inconscio. È una rappresentazione plausibile di ciò che l’uomo potrebbe o dovrebbe fare per mettere fine ai soprusi dei forti nei confronti dei deboli. Il debole è Na mentre gli uomini e le donne che incrociano la sua via, manifestando un malcelato disprezzo, meritano il ghiaccio di una cella frigorifera, una matita conficcata nel ventre in un fetido bagno, il morso di un serpente velenoso o la scarica di adrenalina che induce un uomo a colpire un suo simile,con un’estintore, sopra la testa.
Na conclude il proprio percorso uccidendo gli infami taglieggiatori che lo hanno sbeffeggiato senza pietà. È una carneficina a cui non può e non deve sopravvivere nemmeno la testimonianza filmata dalla camera a mano, simbolo della consapevolezza della perversità delle azioni umane, azioni il cui ricordo è meglio celare per non impazzire. Na uccide la donna e con essa il racconto ma la donna non è veramente morta e la cinepresa non è veramente rotta. L' ombra delle efferatezze compiute, dale vittime o dai carnefici, possono tornare a galla, in qualsiasi momento, gettando la propria ombra sulla coscienza.
Terminata la propria missione Na torna al cavalletto per dipingere. I teppisti sono ancora al loro posto, intenti a riscuotere il pizzo presso un venditore di bambole e la donna ha ancora la sua camera a mano. Questa volta è il venditore di bambole ad esplodere in una inusitata violenza mentre il mezzo di ripresa segna un distacco fisico ed emotivo dalle immagini che propone, tra verità e finzione.
"Real fiction" di Kim Ki-duk mischia teatro e cinema, strade e palcoscenici, telecamera a mano e cinepresa professionale, campi medi e campi lunghi, le vibrazioni della mano e la fissità delle inquadrature. Kim avvicina la violenza e prontamente se ne distanzia per l'insostenibilità emotiva della stessa. Il maestro riprende la sofferenza covata nel suo animo a causa di una società violenta che non approva ma che vorrebbe combattere con la vendetta perché non vi è altra scelta di fronte al fallimento della giustizia che una coppia di cinici poliziotti rappresenta con valide argomentazioni.
Il mondo è corrotto e la legge del taglione è l’unica che possa restituire dignità all’offeso.
Un ciak e un applauso ci svegliano da un incubo. Il cinema può salvarci da una reale finzione? Quello di Kim Ki-duk sí. (V.O.S.)
MyMoviesOne - KVision
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta