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Wild Animals

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Wild Animals

di EightAndHalf
4 stelle

Se Kim fosse un regista di film per la televisione, il risultato sarebbe questo: un’ingenua successione di eventi narrativi alternati a una programmatica messa in scena di sesso e violenza, in dose anche superiore a “Crocodile”, ma meno giustificata e più patinata, finta, priva di anima. Il film appare quasi realizzato per commissione, e Kim non si sforza minimamente di liberarlo dalle ristrettezze che uno stile piatto e dozzinale sembra imporre: colonna sonora onnipresente e ingombrante, personaggi stereotipati, un messaggio di poca originalità. Dell’opera prima del regista coreano resta l’insofferenza dei protagonisti nei confronti di un mondo ostile e violento, che ostacola la scoperta del loro sentimento, che anche qui nasce da compromessi violenti e negativi. Eppure qui la trama (che riserva anche troppe sorprese) non possiede quelle ripercussioni sociali che facevano bellissimo l’esordio del regista: le uniche ripercussioni di “Wild Animals” sono sullo spettatore, che si ritiene fortunato di sapere che il regista cambierà presto ritmi e prospettive.
È vero che la narrazione è imprevedibile, e che il ruolo del caso è curioso e inintelligibile, com’è giusto che sia, ma Kim parla fin troppo per assoluti, e il mondo circostante, ostile e sconosciuto (qui il regista è in un’azzardata trasferta in una Francia tutt’altro che cartolinesca), vuole essere simbolo di una generalizzazione negativa, in cui tutti gli uomini diventano fuorilegge e tutte le donne vendono il proprio corpo per accontentare il voyeurismo di uomini che, d’altra parte, riversano nella carica sessuale lo sfogo nei confronti di una realtà ingiusta. Quello che viene fuori è una dozzinale alternanza di eros e thanatos, neanche troppo disturbante, e che scivola non poche volte nel ridicolo involontario (un pesce surgelato usato come arma, un dispositivo creato nell’arco di pochi minuti dal protagonista in maniera tale da far partire automaticamente una pistola, alcuni pretesti narrativi programmatici per far comprendere il passato di certi personaggi). L’analisi dei rapporti tra i personaggi si scorda ben presto dell’avvicinamento di due lingue diverse, e ripropone situazioni già viste (l’amicizia virile fra i due protagonisti sembra una brutta copia delle amicizie virili dei film di John Woo). Gli stranieri, benché mossi da pulsioni sessuali e violente, sono vittime di un sistema corrotto (un Occidente messo a processo) che blocca qualsiasi sogno, concetto tale da far sfiorare alla pellicola il manicheismo più ingenuo, se non fosse per un finale curioso. Poco si salva, del secondo film di Kim, anonimo e comprensibilmente inedito in Italia.

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