Regia di Jang Sun-Woo vedi scheda film
Il massacro di Kwangju del maggio 1980, costato la vita a un numero di persone oscillante tra 200 e 2000 a seconda delle fonti, è senza ombra di dubbio l'evento politico sudcoreano più sconvolgente della seconda metà del XX secolo (dopo la Guerra di Corea ovviamente).
In seguito all'imprigionamento del leader storico dell'opposizione Kim Dae-jung da parte del generale Chun Doo-hwan, fautore del colpo di stato conseguente all'assassinio del Presidente Park Chung-hee, migliaia e migliaia di coreani si radunano a Kwangju, capoluogo della regione di provenienza del dissidente incarcerato, e il 18 maggio, in violazione della legge marziale, manifestano contro i metodi autoritari e repressivi del regime e dell'esercito. Per 10 giorni è guerra: studenti e civili protestano veementemente, l'esercito manganella, baionetta e spara sulla folla. La rivolta ha il suo apice il 21 maggio con la cacciata provvisoria delle truppe, che però si riprenderanno definitivamente la città il 27 maggio, sbaragliando la resistenza in soli 90 minuti.
Sedici anni dopo, Jang Sun-woo (all'epoca degli scontri in carcere a Seoul per attività sediziose) riesce a portare sullo schermo la materia tragica di Kwangju. Ma anziché scegliere le formule documentaristiche o del film di denuncia, concepisce un film stranissimo, costruito per lo più in forma di rito sciamanico (un ssitkkim-gut per la precisione) che in forma di racconto lineare, un rito per il sollievo di un'anima afflitta.
Una ragazzina quindicenne che ha perso la madre durante la rivolta vaga in evidente stato confusionale, cercando disperatamente il fratello maggiore (morto mentre era sotto le armi). Trova invece un uomo in riva a un fiume e inizia a tallonarlo. L'uomo, un operaio rude e solitario ai limiti dell'eremitismo, si approfitta di lei violentandola ma iniziando al tempo stesso a investirla di una scontrosa forma di affetto che finisce per legarli. Nel frattempo tre ragazzi, amici del fratello della giovane, si mettono in viaggio per rintracciarla, alleviare la sua disperazione e riportarla a casa. Anche se i tre non la ritroveranno, la ragazzina riuscirà ad affrontare da sola il doloroso ricordo della morte della madre in uno sprazzo di lancinante lucidità (davanti alla simbolica tomba del fratello, rievoca le immagini dei tragici avvenimenti di Kwangju).
Film importantissimo. Senza incanaglirsi nella condanna individuale (ci penseranno i tribunali qualche anno dopo a fare giustizia), Jang compone un affresco dalle risonanze arcaiche in cui il dolore matto e disperatissimo della giovane donna si fa luogo di compassione collettiva, la violenza erotica e fisica esercitata dall'operaio e dai soldati si fa specchio della ferocia un'intera società e la trance del ssitkkim-gut si fa veicolo di consapevolezza radicata nelle tradizioni. E tutto ciò accanto a un paio di intuizioni folgoranti: l'inserimento di sequenze in animazione per i ricordi più domestici della ragazzina e il passaggio al bianco e nero per la sezione più drammatica, quella dedicata agli scontri di Kwangju. Sezione girata proprio nella città del massacro, dove Jang, coinvolgendo la popolazione nella lavorazione del film, ha organizzato una vera e propria manifestazione per riprodurre le dinamiche e le atmosfere di morte degli scontri. Dalla realtà al cinema, dal cinema alla realtà
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