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Calore

Regia di Paul Morrissey vedi scheda film

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La recensione su Calore

di scapigliato
8 stelle

Da New York a Hollywood. Dall’antinarrazione alla narrazione classica. C’è pure il montaggio alternato. I mezzi si sono fatti maggiori, c’è una consapevolezza diversa del linguaggio filmico, una sua palesata ambiguità. Lo sguardo incede e si condece al ritmo main-stream, ma si lascia anche andare all’inutilità della macchina da presa, agli zoom, ai passaggi rapidi da un soggetto all’altro. “Flesh” rivive in “Heat” solo di sfuggita. La nudità è casta, neppure un frontale. C’è molto erotismo, anche depravato, ma tutto è privo di veri pruriti, tutto resta appiccicato allo sfondo del Motel Tropicana con quello là che si masturba sempre. Philip Brody parla di una non-tecnica drammaturgica che dovrebbe essere il segreto del film. É una riflessione che faccio mia, ma non per “Heat”. Non è qui che viene palesata la simulazione della recitazione professionale. Non è qui che l’improvvisazione diventa la cifra autoriale dell’attore. Certo, è un film di Morrissey con Joe Dallesandro e la Andrea Feldman di “Trash”, quindi ha nel suo DNA i caratteri di tale approccio attoriale e anche registico, di direzione degli attori. Infatti gli sprazzi del tanto amato “fantasticare”, il cazzeggio logorroico, inconcludente, antinarrativo di tanto cinema d’autore, c’è anche in “Heat”, soprattutto nella scena a tre tra Andrea Feldman e i due porno-fratelli. Abbiamo punte di grande erotismo, dovute più all’iconografia della scena che a quello che in scena avviene. Per il resto il film segue una narrazione, e i diaoghi ne sono la sua resa discorsiva. Come nella più sana tradizione narrativa c’è un conflitto che porta avanti l’azione, base necessaria per una narrazione. Cosa che non c’è né in “Flesh” né in “Trash”, dove piuttosto che un conflitto che porti avanti l’azione c’è l’assenza di un conflitto che rallenta l’azione e la perpetua nell’insofferenza, nell’apatia e nella noia.
In “Heat” però va notato un gioco citazionista di Morrissey con cui però vedere e godere il film in modo unico e diverso. “Heat” è un melodramma. É un film quindi di genere, che però, come i grandi rivoluzionari della settima arte, Morrissey riscrive e rilegge nei suoi codici. Non c’è infatti il patetismo pastello di tanti mélo dell’epoca, bensì una grottesca deformazione di esso. E segno vigoroso ne è appunto la sua incarnazione straordinaria: Sylvia Miles. L’attrice, sulle orme della Gloria Swanson di “Viale del Tramonto”, è una vecchia attrice in decadenza che s’aggrappa grottescamente al fisico superbo di Dallesandro, senza rendersi conto che è forse ad altro che dovrebbe aggrapparsi per non sprofondare anche come donna, oltre che come attrice. La sua recitazione sopra le righe, passa dall’energia di una dominatrice all’isteria di una abbandonata, vulnerabile e depressa candidata all’obitorio. Le fa da contraltarre la recitazione per sottrazione di Dallesandro. La sua bisessualità lo porta a vivere i suoi rapporti sì con spudorata frenesia, ma anche a staccarsi dal fondo della vicenda madre-figlia, e restare opaco nella diegesi. Un contraltare per la Miles che lo rende la reiterazione edonista dei disperati e perdenti Littke Joe di “Flesh” e “Trash”, mentre qui il suo Joey Davis è un opportunista e vincente. Ma come in tutti i mélo ci sono fantasmi che tormentano gli equilibri precari dei già fragili personaggi (l’unico a non esserlo, o a mascherarlo filosoficamente, è quello di Dallesandro). Infatti il fantasma della Swanson aleggia nella casa, villone d’epoca, intriso di Storia e storie bizzarre che solo nella Hollywood dei ’20 erano possibili. Ed ecco che anche la nostra Sylvia Miles, sedotta e abbandonata da Joey lo rintraccia per ucciderlo e sperare di vedere il suo corpo galleggiare nella piscina del Motel Tropicana. Proprio come in “Viale del Tramonto”. Soltanto che a questo giro la pistola non spara, e non muore nessuno, e nessuno finisce cadavere a galleggiare nella piscina, se non la pistola, ultimo simulacro. Il ribaltamento comico, grottesco e, perché no?, tragico, torna nella narrazione di Morrisey e ci chiosa la sua trilogia riscrivendo il requiem di Billy Wilder. E in quell’ultimo passaggio dove Joe Dallesandro resta confuso e assente davanti al gesto della Miles sembrerebbe sentirgli dire “Passo”.

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