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Flesh

Regia di Paul Morrissey vedi scheda film

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La recensione su Flesh

di scapigliato
8 stelle

Il primo film di Morrissey, dopo una lunga serie di corti partiti fin dal 1961 con “Ancient History”, è una riflessione sulla carne (flesh), sul sesso, la noia, la vita, l’estetica e il senso, lucida, spietata, toccante, naturalistica, trasgressiva, emozionante, coraggiosa, tenera, all’avanguardia ieri come oggi. Un’Odissea erotica, come giustamente ha scritto Mario Zonta, amico di Wharol e Morrissey. Se il Cinema, in soldoni, lo si può dividere in narrativo (dialoghi, intreccio e montaggio funzionali ad un racconto) e in visivo (immagini, montaggio, fotografia, filmico e profilmico funzionali alla creazione di un universo emotivo impalpabile), il film di Morrissey, con cui si apre la famosa trilogia, non appartiene a nessuno dei due. Anzi, prende quel poco da entrambi per essere “letto” dal pubblico, ma utilizza il mestiere sia del racconto che dell’immagine a modo proprio, innovativo ed originale. La trama, scheletrica, c’è: Little Joe deve guadagnare 200 dollari per far abortire l’amica della moglie. Ma poi tutto si perde in divagazioni, scene dilatate oltretempo, camera fissa e cazzeggi vari. Del cinema visivo prende il gusto e l’ontologia dell’immagine senza cadere in retorica. E così il montaggio sarà “scorretto”, sincopato fuori ogni logica. Le inquadrature non inquadreranno, ma registreranno soltanto, quasi fossero un’arnese del naturalismo più puro. Ma nonostante questa direzione l’impatto visivo di “Flesh” è straornidariamente superiore a quello dei rifinitori e puristi dell’immagine, e della convenzione, commerciale come artistica, dell’immagine stessa.
Si parte inconfondibilmente dalla prima inquadratura, fissa e dilatata il tempo di una canzone, dove in primo piano Joe Dallessandro dorme. Segue una seconda inquadratura, in campo totale stavolta, sempre fissa, dove Joe Dallesandro dorme nudo sul suo letto. Fuori quadro si sente la presenza di una donna, che entra in quadro per svegliarlo. É sua moglie, che vuole che giustamente si alzi e vada a lavorare. Se non fosse che il lavoro di Little Joe sia di prostituirsi sui marciapiedi di New York. Un Little Joe, bello, scultoreo, estremamente sensuale, e soprattutto nudo, con l’immancabile erezione della prima mattina. Solo da questo avvio assistiamo alla prima grande, vera e feroce rottura con il cinema precedente, ma anche con la morale e lo spirito di tale cinema precedente. Se infatti Hollywood s’era ormai specializzata a creare fantasie e illusioni edificanti, per esportare il modello americano, ma anche per consolidare all’interno del Paese stesso un’idea di morale, di vittoria sul Male, di integrità dei valori che possono e devono sopravvivere alla spazzatura della sorditezza moderna, Morrissey riesce a creare un film che di questa ingerenza istituzionale ne è l’antidoto. In America, e non è un segreto, puoi avere tutte le armi di questo mondo, perché hai diritto a difenderti, ma guai a fare sesso fuori dal matrimonio, o a vivere la sessualità fuori dai canoni dettati dalla morale conservatrice. Puoi e devi andare in guerra, per morirci o per uccidere: l’importante è che lo fai, perché mai tirarsi indietro davanti alla patria. Ma guai a credere nella lussuria, così come nelle droghe e nell’alcol. Chiaramente poi la realtà era diversa, e i giovani dei ’60 ben sapevano e conoscevano le prassi trasgressive, soprattutto in città. Ecco che Morrissey quindi, attraverso un bellissimo adone, vero “uomo da marciapiede rispetto il coevo di Schlesinger, contrappone la bellezza della vita umana e più significativamente la bellezza fisica, concreta e palpabile (e anche succhiabile), del corpo umano, che è poi il significante del significato della vita, lo oppone alla realtà contemporanea. Sordida, è vero, ma più appagabile di repressioni e castrature varie che arrivano dalle stanze dei bottoni. La riflessione sulla carne è quindi un mezzo per prendere una posizione netta e radicale verso il marciume dell’America del Vietnam, del Watergate, di Dallas e delle Black Cops, ed elevare così ad impalpabile tensione verso la bellezza tout-court, il piacere. Piacere inteso come sessuale, come artistico, come alimentare e come relazionare. Little Joe è un giovane marchettaro, fa sesso per soldi. E se lo può permettere visto che il suo interprete, Joe Dallesandro è stata l’icona sexy più efficace e sensuale della storia del cinema. Il piacere del sesso quindi supera la dimensione casalinga, ma anche quella spirituale. E superare lo spirito sembrerebbe impossibile. Si crede che superando la carne si acceda allo spirito. É vero. Ma superando ulteriormente lo spirito, si accede alla vera carne, quella che spiega se stessa e nulla più, privata e depurata da tanti e inutili fronzoli filosofici. In poche parole potremmo dire, o almeno io ci provo a dire che: superando il “fisico” si accede allo “sprito” che superandolo ulteriormente si accede alla “carne”. La riflessione sulla carne riguarderà non a caso il grosso dell’horror degli anni ’80, che troverà nei film di Cronenberg, Hooper, Craven e altri, le nuove declinazioni della carne in smembramenti, mutazioni, deformazioni e quant’altro che corrompe il corpo.
Ma il piacere è qui nell’opera di Morrissey declinato anche in altre categorie. Il piacere artistico è l’altro zoccolo duro della concezione autoriale del regista, visto che gli dedica un’ampia scena tra le più riuscite del film. Little Joe accetta di stare al gioco di un vecchio artista che invece di praticare il sesso, per il quale Joe dovrebbe essere poi pagato, lo coinvolge in un excursus, o forse meglio in una divagazione molto rarefatta, quasi inconcludente, sul perché della bellezza. É un passaggio evidentemente metatestuale in cui Morrissey, per via del vecchio artista, palesa e svela il gioco dell’estetica proprio sotto i nostri occhi. Nelle parole del vecchio ci sta tutto quello che serve sapere: “É quello che si dice letteralmente parlando “il culto del corpo”. Io sono convinto che questa sia la grande forza che sta dietro tutte le arti di questo modo. Il culto del corpo è innato nel genere umano. Ogni uomo, ogni individuo, anche se puritano o ...che cazzo è, adora il corpo! Ma se l’edonismo si massifica e uccide l’entità di ognuno, che succede? Succede che tutti vanno in palestra e si fanno della grandi pippe. E allora tutto questo gran sesso inizia e finisce lì. [...] Edipo e il suo complesso. Hai capito? Il culto pagano che poi diventa un rituale dei morti. Perché qui c’è un problema: tu e il tuo corpo. Diciamo, tu hai un bel corpo. E qualcun’altro non ce l’ha. Però tu come fai ad adorarti. É questa la difficoltà, giusto?”. Quindi, come riporta poi Mario Zonta, o come traduce Matrio Zonta dai monologhi del vecchio “Per una persona libera la venerazione del corpo va oltre tutta l’arte [...] La venerazione del corpo fa parte dell’animale umano. Piace a tutti gli esseri umani, che siano Puritani, o che altro possano essere... Che dal cinema e dall’arte tutti rivacano quello che chiamiamo il piacere sessuale, queste sono sciocchezze. Non c’è del sesso, c’è la venerazione del corpo che si trasforma in sesso”. La riflessione, per nulla appiccicata, arriva da un punto di partenza vecchio come il mondo per il quale il sesso non è altro che un ingentilimento del cannibalismo. L’uomo, ingentilitosi, non può però nascondere la brama di volere e possedere il corpo altrui. Che sia della donna amata, che sia del giovane figlio, o che sia quella di un’appartenente al proprio sesso, il corpo ci porta a desiderarlo. Perché è giovane, o perché è perfetto, o perché ne siamo sprovvisti, o perché ha un particolare che ci emoziona, o perché siamo frustrati. Ora, dire che tutto il cinema e tutta l’arte grafica nascono per desideri sessuali inespressi, o repressi a causa del tempo e delle idee del tempo, è un po’ generalista. Indubbiamente, e io lo credo con forza, ci sono delle spinte interiori, che arrivano proprio dal basso, e che si alzano in pensieri di bellezza. Il simbolismo che ho usato (basso e innalzato), è voluto, perché serve ricordarsi che nulla accade per caso quando di mezzo c’è il sesso. Di conseguenza, il Little Joe che imita i modelli greci davanti al vecchio artista che gli racconta la forza della bellezza e dell’estetica del corpo, è lui stesso il “corpo cinematografico” che noi, “vecchi artisti” stiamo cercando di comprendere vedendo.
Ma la declinazione del piacere arriva anche a toccare la sfera dell’alimentazione e della relazione. Quante volte sentiamo Little Joe parlare di cene offertegli dai clienti? E ne parla come un momento davvero importante, non secondario. “É la vecchia solfa, cibo e sesso insieme, sempre insieme. Sempre prima il corpo, prima il corpo”, dice approposito il vecchio artista. Certo è solo superficiale il modo con cui se ne parla nel film, ma se ci ricollegassimo al discorso del cannibalismo noteremmo come le due riflessioni appiano contigue. Anche la sfera relazionare è vissuta, giustamente, come un piacere. Ciò che è “incorrect” rispetto al “politically correct” a cui siamo, ahinoi, soggetti oggi, è che le relazioni di Little Joe sono fuori norma, fuori canone, fuori dall’ideale borghese. Fa amicizia e salotto con i primi che passano per strada, clienti o marchettari che siano; la fa con la moglie, che però non è la moglie dei quadretti bucolici americani; la fa col figlioletto in una delle sequenze più belle e tenere, dove la nudità dell’adulto lo svela per quello che è: uno uomo adolescenziale; fa amicizia anche con donne violentate e disinibite, con travestiti, con vecchi amici di un’amicizia ambigua e con l’amica gravida della moglie, con cui dormirà nello stesso letto: lui nudo e le due ragazze, moglie e amica gravida, abbracciate safficamente. Eppure, tutte queste relazioni “fuori canone” sono vissute con una tenerezza ed un’emotività assenti in molti degli affreschi ufficiali dei film coevi. In questi film si parla di bei sentimenti, in mano a belle persone, che tra loro vivono secondo le regole della morale. E se non fosse per la presenza di film come questi di Morrissey, saremmo facilmente fregati e traditi dall’ipocrisia dell’industria hollywoodiana. Anche se quest’ultima è da sempre roccaforte democratica, va ricordato che anche la sinistra quando è in luoghi di potere assume un’aspetto conservatore, per ingraziarsi anche i detrattori. Quindi troviamo in “Flesh” anche il piacere nella relazione atipica. E anche questo fa parte del disegno superiore del discorso morrisseyano sul piacere.
Nel particolare, un pensiero a parte va dedicato a Joe Dallesandro. L’attore americano, icona etero e omosessuale della factory wharoliana, è di una bellezza e perfezione disarmanti. Anche noi maschietti restiamo affascinati dal suo corpo come dal suo volto. Un volto la cui noia, apatia e insofferenza ci ricordano quelle della gioventù americana dell’epoca, sospesa, incerta e interrotta; quella delle metropoli come delle periferie, quella dei ghetti suburbani come quella dei quartieri per bene, poi distrutti dai mostri dello slasher dei vari Carpenter e Craven (“Halloween” e “Nightmare”). Ma non solo il corpo e il volto, ma di Joe Dallesandro aspettiamo anche la visibilità del membro maschile, cifra unica nella determinazione della propria virilità, come della propria identità. Lo aspettiamo dietro le coperte, dietro i fiocchetti, dietro le fellatio, e così via. E non perché irrompono in noi tensioni omosessuali, che poi sono naturalissime e non devono spaventarci, bensì perché essendo uomini sappiamo e comprendiamo bene il valore del nostro corpo in un discorso più ampio, e per molti ancora sconosciuto, sulla bellezza. Ma il personaggio di Dallesandro non va ripensato solo in termini pornoestetici, se mi si permette l’audacia del termine visto che per me il prefisso “porno-” non ha alcuna accezione negativa. Nel suo Little Joe ravvisiamo tutta l’indeterminatezza e la tenerezza di un uomo adolescenziale. Un tipo che nel panorama mitico dei tipi cinematografici prima di allora o era stato solo abbozzato, o proprio non esisteva. La forza con cui resta in scena, la sua presenza scenica, perfetta come quella di una statua greca, i suoi sguardi, le sue smorfie, i suoi sorrisi trattenuti, e così via sono i segni di un “interruped boy” che anche vivendo nel bellissimo corpo di un uomo, sente e fa ancora propri i movimenti interiori di un adolescente. Si sa, non è mistero, che l’adolescenza è la condizione esistenziale dell’artista, e di questi ne è anche il pozzo estetico e mitico dove attingere. Joe Dallesandro porta quindi su e con sé i segni di questa imperfezione, che stando alle parole dello stesso regista sono i segni di eroi, i suoi eroi, che non hanno grosse ambizioni o aspirazioni. Che nessuno dei suoi eroi è talmente ingenuo da aspettarsi di essere amato o di amare, perché “vivono in un mondo in cui i sentimenti sono spariti, morti, e loro lo sanno”. Questa consapevolezza della propria, chiamiamola pure imperfezione o meglio ancora indeterminatezza del proprio sé, è l’ombra autoriale che ammanta tutto il film di Morrissey. Sospeso tra denuncia e inno poetico, “Flesh” è uno dei capolavori del cinema moderno. Denuncia, perché la vita dei suoi personaggi vediamo che non porta a nulla, è solo un “trascinare”, un “portare avanti” incasellato in una diegesi secca, impersonale, distaccata. Ma al tempo stesso, di queste vite e di questi ragazzi evidenzia il gesto tenero, il particolare incomprensibile che commuove, e fa di ognuno di loro, Gerri Miller compresa, degli uomini adolescenti, i soli capaci di proporre un’alternativa, anche discutibile, alla spazzatura (il “trash” che verrà dopo), di quel mondo, questo mondo, e della sua epoca.

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