Regia di John Ford vedi scheda film
La famiglia Lester della Georgia è una congrega di tarati. Anni e forse secoli di lavoro massacrante e malnutrizione hanno influito in maniera decisiva sulla psiche dell’intera schiatta, intaccandone il patrimonio genetico. I due anziani coniugi Jeeter e Ada (ma nei dintorni del loro abituro si aggira ancora una nonna Lester) hanno partorito 17 figli, di cui quattro sono morti, dieci se ne sono andati altrove, una, Perla, è stata data in moglie al rude contadino Lov Bensey, mentre altri due – l’animalesca bellezza Ellie May e il quattordicenne ritardato Dude (buono soltanto a suonare il clacson delle automobili), vivono ancora con loro. La Grande Depressione ha ridotto i Lester sul lastrico, lasciandoli a morire d’inedia e ad essere cacciati dalla loro casa e dalla loro terra (acquisita dalla locale banca dal vecchio proprietario, generoso ma ormai in braghe di tela), per non avere neppure i soldi per comprare le sementi ed iniziare a lavorare i campi. Una soluzione a lunga scadenza non sembra esistere e quindi non resta che sperare in qualche espediente, come far sposare l’ultimo figlio maschio con un’anziana vedova, fanatica della religione, che ha ereditato un’assicurazione sulla vita dal defunto marito. Sorta di versione comica – seppure sullo sfondo di vicende assolutamente tragiche – di “Furore”, “La via del tabacco” sconta qualche eccesso di grottesco, ma è davvero impagabile quando mostra gli aspetti peggiori della società americana alle prese con gli effetti successivi alla grande crisi del 1929. Le banche che espropriano i terreni, patrimonio ancestrale di tante famiglie del vecchio Sud; gli anziani che vegetano “per forza d’inedia” davanti alle loro catapecchie, costretti ad arrabattarsi per sbarcare il lunario; i giovani, spesso dementi per tradizione di famiglia e sempre analfabeti per l’incuria di uno Stato del tutto inesistente; il potere assorbente e totalizzante della pratica religiosa (geniali le sequenze nelle quali Sorella Bessie intona i suoi inni religiosi, con gli astanti costretti a fermarsi per cantare, senza poter reagire alle assurdità dei protagonisti): tutti questi aspetti costituiscono l’humus nel quale sguazzano i personaggi di questo film, talmente brutti sporchi e cattivi da dare dei punti ai figuri del film di Scola (mentre nel film italiano ci si azzuffava per accaparrarsi il milione di lire del capofamiglia, qui ci si scanna per un sacco di rape dolci). Eppure, l’insieme, come testimonia l’insperato finale, nel quale un deus (minore) ex machina – Dana Andrews in versione Rhett Butler – regala dieci dollari ai Lester, ha decisamente un tono da commedia.
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