Regia di Josef von Sternberg vedi scheda film
I film di Sternberg sono un viaggio nella geografia del mito. Spesso già a partire dai titoli il vero protagonista è un luogo geografico elevato alla massima potenza. Qui sono "i bassifondi del porto" (i "Docks of New York"). Altrove sono il Marocco fatale, oppure i misteri di Shanghai, o la locanda all'insegna dell'Angelo Azzurro, o ancora i sotterranei di Chicago. Il meccanismo filmico di Sternberg è orientato verso un fine principale: creare luoghi fantastici, ed evocarne le atmosfere come allusioni ai temi eterni dell'esistenza umana. Per questo il regista ha sempre ricostruito le proprie ambientazioni all'interno dei teatri di posa: per avere il controllo completo sui mondi che la sua fantasia intendeva creare e sulle loro potenzialità evocative.
Soprattutto nella prima parte della sua carriera i mondi preferiti da Sternberg sono i bassifondi (ricordo della sua infanzia viennese e americana), sordidi e malfamati, in cui violenza e disperazione sono ricreati con esasperata pretesa di realismo.
Questi contrasti sono fondamentali nello stile del regista: torbido realismo ricreato attraverso la fantasia e l'artificio; miseria e degrado raccontati con immagini di assoluta perfezione luministica. In queste contraddizioni c'è infatti una chiave di lettura dell'arte sternberghiana. I personaggi dei suoi film sono per lo più degli antieroi decadenti: raffinati e sprezzanti esteti caduti in mezzo alla bruttezza, sentono il richiamo di un mondo superiore, ma sono irrimediabilmente prigionieri della realtà meschina in cui vivono. Il loro sguardo verso questa realtà è sempre intriso di disprezzo, nostalgia, amarezza, sfida, stoica sopportazione. In ogni inquadratura di Sternberg, filtrata attraverso questi sguardi, appare qualcosa di sordido e assieme l'evocazione di una bellezza evanescente e labile come un'ombra o un tremolio di luce. Una bellezza in pericolo, costantemente minacciata dallo squallore della realtà.
In The Docks of New York Sternberg raggiunge forse uno dei vertici della sua maestria tecnica. Eppure in altri film (ad esempio nell'incredibile Imperatrice Caterina, ma anche il meraviglioso The Last Command) l'arte sternberghiana si fa ancora più vivida e "spericolata". Quel sentimento di bellezza minacciata diventa ancora più forte e sorretto da una tensione estetica lacerante. Ad esempio nell'Imperatrice Caterina, come è stato detto, ci sono dei tratti kitsch che appaiono qua e là come un fiume carsico che talvolta emerge in superficie. Ma la perizia di Sternberg nel maneggiare il kitsch e usarlo per i propri fini espressivi è unica. Il suo modo di muoversi attraverso le meraviglie luministiche e scenografiche che sa creare, scivolando senza soluzione di continuità tra il sublime e il kitsch, tra il grottesco e il sensuale, racconta perfettamente questa visione del mondo: l'uomo è un essere caduto in un mondo degradato, in cui si muove in cerca di riscatto attraverso la Bellezza, soggiogato dalla nostalgia per un qualche altrove. La tensione estetica è tale che l'immagine sembra in ogni momento sul punto di lacerarsi, di decomporsi rivelando la sordida realtà che le sta dietro. I veli che invadono ogni luogo, adombrando i volti, sono perennemente increspati da una misteriosa corrente d'aria; le candele tremolanti sempre sul punto di spegnersi; il volto impassibile della Dietrich sempre in procinto di cedere a uno spasimo, a un sussulto. Soprattutto: la bellezza è costantemente minacciata dal kitsch, il sublime perennemente irriso dalla volgarità. Le statue deformi che circondano i personaggi, diventando personaggi esse stesse; luci, gesti, simboli, oggetti… tutto è fantastico e allo stesso tempo grottesco, esagerato. Meraviglioso e volgare insieme. La bellezza del film è spaventosa, ed è costantemente in pericolo. Ogni inquadratura è un campo di battaglia.
L'Imperatrice Caterina secondo me è un film eccezionale proprio per questa sua personalissima proliferazione estetica, una metastasi visiva dilagante, apparentemente incontrollata ma in realtà controllatissima. In questo senso è il film più "sternberghiano", e per me uno dei capolavori assoluti dell'arte cinematografica. The Docks of New York è un po' decentrato rispetto a questo cammino di ricerca espressiva, e Sternberg sembra propenso invece a sviluppare soprattutto il potenziale narrativo della propria bravura tecnica: insomma, a prendere una storia semplice (incontro di due anime alla deriva; miseria, riscatto e fuga verso una vita migliore) e renderla sinceramente toccante. Ci riesce alla grande.
Alcune scene sono indimenticabili. Oltre a quelle già citate, vorrei ricordare il tentato suicidio della ragazza, suggerito solo attraverso i riflessi e le increspature nella superficie dell'acqua: una meraviglia.
Ma molti altri aspetti del film sono decisamente sternberghiani: certi sguardi della brava protagonista (quel modo di atteggiarsi carico di disprezzo, irrisione, cinismo, tipico dei suoi eroi), la sua sofferenza trattenuta, contrapposta all'ingenua e allegra virulenza del marinaio. E ovviamente, la nota più citata: l'atmosfera luminosa del porto. I bagliori, le ombre e la nebbia nella prima parte, notturna; le luci vivide della seconda, diurna.
In questo senso credo che il film abbia avuto non poca influenza su certo cinema successivo. Mi riferisco al realismo poetico francese e al cinema di Carné. Mi sembra abbastanza scontato accostare i Dannati dell'Oceano a Il Porto delle Nebbie, se non altro per rilevare le differenze fondamentali. Nei film di Carné c'è molta emozione ma non c'è la struggente tensione estetica sterberghiana, nel senso che ho cercato di descrivere. Soprattuto, Sternberg ha un'andatura molto più dimessa, non ama i grandi discorsi, le frasi ad effetto, mentre in bocca al Jean Gabin del Porto delle Nebbie risuonano ad ogni momento i versi del poeta Prevert. Insomma, sono due idee di cinema completamente diverse. Sternberg non crede molto nella parole. In un'intervista ribadì il famoso concetto che per mandare telegrammi era meglio usare il servizio postale: i film non dovevano trasmettere messaggi.
In effetti, i suoi non ne avevano bisogno. Parlano da soli.
Un grandissimo creatore di mondi cinematografici
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