Regia di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet vedi scheda film
“Lezioni di storia” è uno dei pochi film che definirei “veramente marxista” nell’approccio e nella “costruzione” (e proprio a causa di questa sua scelta che potremmo definire “ideologicamente estremizzata” - come del resto è quasi tutta l’opera di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet - potrebbe persino risultare irritante per qualcuno non propriamente abituato a questo specifico tipo di orientamento, proprio per la coerenza di un discorso che, prendendo spunto da un romanzo incompiuto di Bertolt Brecht pubblicato in Italia per i caratteri dell’eroica Einaudi pre-Berlusconi, e quindi “libera da condizionamenti e pressioni”, viene portato avanti senza mediazioni estetizzanti, per raccontare una metafora sulla storia attraverso una pellicola che non intende comunque essere “noiosamente” didattica, pur non rinunciando mai alla “inflessibilità” di una armoniosa concezione “dialettica” fra sentimento e “rigore”, ma utilizzando invece una “composizione” narrativa che in fondo in fondo, (in ultima analisi) potremmo definire “a suo modo” persino “poetica”). Il film che è del 1972 (anni eroici, ancora “politicamente impegnati, quelli, ma in maniera seria, con la partecipazione attiva delle ideologie e del coinvolgimento emotivo, dai quali non è possibile prescindere nella considerazione valutativa di ciò che intende esprimere la pellicola) ed è stato realizzato per la televisione tedesca. La destinazione finale dell’opera si avverte chiaramente, ma non inficia assolutamente il risultato anche per una visione sul grande schermo, che acquista anzi nuovo “vigore” amplificandone in qualche modo la portata. Il testo, le parole, sono tutte e soltanto quelle del grande drammaturgo e questo potenzia il peso della critica sociologica di fortissimo impatto etico, verso una visione capitalistica della società contemporanea. Il “disegno registico” delle immagini si estrinseca invece su due piani perfettamente integrati fra loro: da una parte le scorribande di un giovane della contemporaneità (il 1972, appunto) che attraversa in auto il caotico e affollato “centro storico” di una Roma che già preannuncia l’infernale bolgia dei giorni nostri, e dall’altra, sapientemente alternate, quattro interviste (grosso modo una cinquantina di inquadrature in tutto fra le une e le altre) a pseudo-concittadini “contemporanei” di Giulio Cesare (ovviamente paludati da antichi romani) che rappresentano varie classi e categorie della società (lo scrittore, il banchiere, l’avvocato, il soldato non più impegnato nella guerra attiva, il contadino) che commentano - e a loro modo stigmatizzano - il passaggio della società dalla oligarchia all’autocrazia, e il traghettamento progressivo da una visione più “staticamente” divisa in caste inamovibili (con l’oppressione schiavistica di quelle dei più forti sul “volgo” subalterno), a quella più dinamicamente in movimento ma non meno ingiusta ed infingarda, del mercantilismo in espansione. A mio avviso quindi un ottimo esempio di straniamento oggettivo che invita a una riflessione cosciente, di straordinaria potenza evocativa. Per rendere meglio l’idea di che cosa si parla ( anche se il lavoro dei due registi – senza tradirne lo spirito - si muove autonomamente, semplicemente utilizzando, come già detto, molti dei concetti “brechitanamemnte” espressi nel romanzo), riporto qui ciò che, per illustrarne il valore e il senso, fu pubblicato sulla quarta di copertina del volume al momento della sua uscita in libreria: “Alla morte di Bertolt Brecht, nel 1956, l’inedito sul quale si polarizzò subito la curiosità e l’attesa di tutti gli appassionati del grande scrittore fu il romanzo che egli stava portando a termine: “Gli affari del signor Giulio Cesare”. Già una volta lo scrittore si era cimentato nel romanzo, dando veste narrativa a una sua famosa opera teatrale nel movimentatissimo “Romanzo da tre soldi”. Il nuovo romanzo trattava invece di un personaggio e di un periodo che Brecht non aveva mai affrontato sulla scena: Giulio Cesare. Un Giulio Cesare, naturalmente, visto “alla Brecht”, ricostruendo cioè, con spirito moderno e fortemente polemico, tutti i retroscena, gli intrighi, gli interessi economici nascosti dietro la sua straordinaria “carriera”. Non si creda però che la storia ufficiale ed eroica sia da Brecht messa in burletta o rivissuta secondo i procedimenti del romanzo storico: Brecht vuole soprattutto spiegarsi, alla luce della sua logica realistica, i perché dei fatti tramandatici dalla storia; e le sue spiegazioni. Se pur spesso paradossali, non risultano perciò meno convincenti. Ma il romanzo – che figura essere il diario di Raro, segretario di Cesare – è mosso da una potenza di rappresentazione in cui l’evidenza drammatica sempre presente (il Brecht romanziere non dimentica mai d’esser uomo di teatro) si trasforma in efficacia narrativa: come nei funerali della pescivendola uccisa dalla polizia, o nella scena notturna sul campo di battaglia, tra i morti dell’esercito di Catilina. Attraverso il declino della Roma repubblicana, il marasma sociale, le congiure, si configura un arroventato clima storico in cui possiamo quindi riconoscere “perfettamente” il sapore dei nostri tempi.” Ovviamente il film ne “trasla in qualche modo lo spirito” come ho già accennato ma è oggettivamente molto più riduttivo rispetto al libro (e non potrebbe essere altrimenti date le dimensioni e il differente “stile” di rappresentazione adottato), anche se non ne diminuisce assolutamente il polemico intento “dissacratore” che lo anima e che lo rende straordinariamente “attualizzabile”, proprio cone si si trattasse davvero “di una lezione di storia”.
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