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I Nibelunghi

Regia di Fritz Lang vedi scheda film

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La recensione su I Nibelunghi

di (spopola) 1726792
10 stelle

Il mio primo approccio organico con il cinema espressionista tedesco, è avvenuto nel 1964, in occasione dell’eccezionale (sotto il profilo dell’impatto culturale complessivo dell’evento) “Maggio Musicale” di quell’anno, coordinato da Roman Vlad, interamente dedicato alla corrispondente corrente sviluppatasi in Germania a partire dai primi anni del  novecento, “rivisitata” in tutte le sue principali espressioni artistiche: musica e balletto innanzi tutto, ovviamente (ma anche teatro, con la stimolante rappresentazione - in prima assoluta per l’Italia - di un testo fondamentale come Battaglia navale di Reinhard Goering, messo in scena al Teatro della Pergola con la regia di Gianfranco de Bosio, le scene di Gianni Polidori e la maiuscola prova di Glauco Mauri quale protagonista della piece), oltre che con una articolata mostra dedicata alla pittura e una rassegna cinematografica messa in piedi dal Cineclub Primi Piani, meritoria istituzione culturale molto attiva in quegli anni che, se non ricordo male, faceva capo – pensate un po’ - al movimento giovanile del Partito Liberale.
Fu appunto in quella circostanza  che fra le tante straordinarie opere che ebbi modo di visionare, fui “folgorato” dalla immaginifica bellezza de I Niblelunghi di Fritz Lang, con il quale  – per quanto mi riguarda – fu davvero amore a prima vista.
Negli anni che sono trascorsi nel frattempo, le occasioni di approcciarmi nuovamente alla strabiliante visionarietà del dittico (La morte di Sigfrido e La vendetta di Crimilde sono i titoli delle due parti, abbastanza distinte e separate anche nella forma, come vedremo dopo, che compongono la fluviale pellicola, capolavoro assoluto della settima arte) sono state molteplici, e ogni volta si è rinnovata – accresciuta e amplificata - la mia  entusiastica ammirazione per l’opera, che ho sempre difeso a spada tratta dai “se” e dai “ma” che spesso nei cineclub di un periodo ormai lontano subordinato a un pensiero critico ortodossamente allineato a concezioni fortemente politicizzate,  tendevano a riconoscerne l’importanza  formale (non si poteva evidentemente fare diversamente), ma la attaccavano pesantemente sotto il profilo dei contenuti, sui quali erano a volte persino “trancianti” nell’imputarle quella “indotta esaltazione” anche profetica del nazismo (che sembrava essere un peccato tutt’altro che venale), nonostante gli argomenti anche esterni all’opera da portare a sostegno (quasi sempre inascoltati) di una tesi inversa (non solo le scelte personali del regista scappato da Goebbel e dalle sue allettanti proposte, e l’analisi in toto della sua opera, ma anche la considerazione non secondaria che se Caligari lo avesse realizzato davvero lui così come lo aveva immaginato, forse anche il discorso complessivo sulla corrente espressionista cinematografica, avrebbe potuto avere un differente impatto persino sotto il versante delle valutazioni politiche, oltre che più variegate chiavi di lettura prospettiche).
Vigevano però in quei tempi, ancora troppo radicate convinzioni che creavano quella evidente miopia ideologica che ha nuociuto a lungo a una valutazione veramente oggettiva di una pellicola così corposamente complessa e articolata, densa di suggestioni e di proposte. Viste adesso in prospettiva, possiamo forse ritenerle legate a pregiudizi motivati da tutta una serie di secondari fattori, invero poco aderenti alla “fattura”  dell’opera, proprio per il peso eccessivo che si intendeva attribuire al contenuto per “assolvere” o “condannare” il risultato, rispetto allo stile e alla forma. Elementi denigrativi però difficili a morire e ad essere accantonati, come dimostra il fatto che qualcuno ancora oggi continua a inserire questo titolo fra i risultati più controversi del periodo tedesco del regista, e se si considera che un critico illuminato come Franco La Polla, non nella preistoria, ma nei tardi anni ’70, liquidava lapidariamente cosi la pellicola: Più direttamente legata alle propensioni della Von Harbou, la saga nibelungica non riesce a spingersi al di là di un wagnerismo (!??!??!!) di quart’ordine  - Cinema di tutto il mondo – Edizioni Mondadori a cura di Alfonso Canziani.
Del cinema tedesco relativo al periodo espressionista (resta comunque da verificare quanto di effettivamente espressionista in senso stretto ci sia davvero – o soltanto – dentro I Nibelunghi) avvertiamo ancora oggi la profonda incidenza che ha avuto, e non solo come fatto culturale: possiamo allora immaginare come a caldo, con il supporto di pochissime conoscenze complessive delle opere e l’approfondimento tematico del Krakauer, tutto improntato a una lettura psicologico/politica del movimento che rimane fondamentale ancora adesso, ma che non può né deve essere considerata la sola, possibile strada interpretativa, abbiano potuto prendere forma imbarazzanti equivoci e (adesso) inaccettabili abbagli che nessun revisionismo, per quanto accurato, è riuscito a dissolvere del tutto, anche se la prima vera occasione di rilettura “critica” con verifica sul campo, dopo una tutto sommato incompleta retrospettiva veneziana, è del 1955 ad opera  del C.U.C. (il meritorio cineforum ufficiale dei Centri Universitari Cinematografici che faceva tendenza ed opinione).
Ebbene, già in tale circostanza, va rilevata, pur così a ridosso della “Storia”, la volontà di non rimanere ancorati allo stereotipo cristallizzato di ciò che era stato ormai considerato dai più come definitivo e inamovibile giudizio, facendo così diventare l’avvenimento una interessante occasione di approfondimento “fuori schema” che tentava (anche con sorprendenti intuizioni “avveniristiche” che solo molti anni dopo avrebbero fatto proseliti) di riprendere in mano le redini di una analisi troppo frettolosamente conclusa riproponendola - credo per la prima volta - non più incardinata soltanto sui rigidi schemi ideologici in auge (ovviamente senza prescindere da Krakauer, poichè questo non sarebbe possibile nemmeno adesso), ma cercando di inquadrarla invece in un’ottica valutativa anche di carattere estetico, e quindi concentrata soprattutto sull’aspetto artistico, secondo i suggerimenti e gli stimoli forniti  da altri contributi saggistici già a quel momento disponibili, che ne integravano i significati  e le  interessanti prospettive (mi riferisco soprattutto al volume di Lotte H. Eisner,  L’Ecran démoniaque –Influence de Max Reinhard et de l’expressionisme pubblicato nel ’52 che, in particolare per quanto riguarda Lang, è davvero imprescindibile). I  quaderni del C.U.C. che accompagnavano la  visione delle opere, portavano proprio, riguardo a questa nuova ottica valutativa, un interessante pezzo introduttivo a firma di un allora giovanissimo e lungimirante Stefano Rodotà.
Adesso che davvero molta acqua è passata sotto i ponti, possiamo tentare nuovamente di fare il punto, anche in relazione alla effettiva “appartenenza” artistica dell’opera a una corrente piuttosto che a un’altra (come si vedrà di ben più difficile attribuzione di quanto può sembrare in apparenza), sgombrando il campo persino da quegli imbarazzanti equivoci a cui accennavo sopra che non hanno davvero più ragione di esistere, comunque la si pensi in relazione al risultato artistico – e sottolineo ARTISTICO – dell’opera.
Ma  andiamo per ordine partendo proprio dal supposto wagnerismo che tanto gli ha nuociuto.
Sappiamo che il soggetto di questo monumentale affresco cinematografico in due parti, è soprattutto opera di Thea von Harbou, allora moglie del regista, che, come è risaputo, era particolarmente attratta  dalle tematiche “titaniche” (oltre che dalle ideologie hitleriane, come dimostrerà il suo successivo percorso,  ma questo “dovrebbe essere” e rimanere un altro discorso), che per l’occasione aveva rielaborato uno dei miti fondanti delle leggende nordiche,  trasformandolo in un’epopea romanzesca piena di personaggi leggendari arroventati dalle proprie passioni primordiali fino a farlo diventare un documento nazionale atto a diffondere in tutto il mondo la cultura tedesca e sono frasi pronunciate a caldo dallo stesso Lang,  che risuonano, come ci ricorda il Krakauer, come parole che sembravano voler anticipare, con una sorprendente similitudine dei concetti e del “senso”, quelle poi espresse “davvero” dalla propaganda di Goebbels (che in effetti  propose proprio a Lang di assumere la posizione di direttore supremo dell’industria cinematografica tedesca), dimenticandosi però di sottolineare che, visti gli anni in cui furono pronunciate, al massimo potevano semmai rappresentare una profetica intuizione e che il riferimento  alla cultura tedesca era probabilmente dovuto più a quello spirito pangermanico post romantico che continuava a serpeggiare prepotente e che si ritrova pienamente espresso anche ne I Nibelunghi.
Nessuno (o solo pochissimi) hanno però osservato che se analogo è il mito ispirativo (e come poteva essere altrimenti?) differenti sono le fonti di riferimento anche in antitesi, così che parlare di “derivazione wagneriana” del soggetto è  per lo meno improprio se non per il biondo arianesimo di Sigfrido:  basta fare una analisi ponderata dell’andamento, per rilevare come in effetti  Lang abbia preferito richiamarsi alla linearità più schematica del Nibelungenlied, oltre che, per qualche più piccola annotazione  (limitatamente cioè alle gesta relative ai Velsunghi) all’Edda, anziché ricorrere alla più pomposa magniloquenza della scandinava Volsungasaga, che fu invece proprio il materiale fondamentale sul quale Wagner elaborò la sua tetralogia. Il riferimento (e il ritorno) di Lang è semmai allora alle fonti più popolari e primitive delle leggende nibelungiche e non va probabilmente ricercato (come si sosteneva impropriamente allora) in  velleitarismi  bassamente nazionalistici, ma nel desiderio di fornire l’equivalente cinematografico (e figurativo) della classica epopea germanica, sfrondandola proprio dallo pseudo-wagnerismo imperante che l’aveva ormai pervasa.
Con questa differente partenza  su delle vicende abbastanza similari, Lang è riuscito così a ridurre il dramma da cosmogonico e  metafisico che era, a una sua più intima umanità in cui è semmai l’elemento fatalistico a giocare un ruolo fondamentale (per altro un tema particolarmente a lui congeniale, visto è che era già quello portante  di Der Müden Tod (Destino). Sono invece a mio avviso attribuibili  anche alla Von Harbou  le altre intuizioni prioritarie che attraversano l’opera relative ai profondi sensi di colpa che tracimano dietro le inevitabili espiazioni e quello ancor più aulico della vendetta purificatrice, comunque anch’esse retaggio prioritario della poetica langhiana che confermano la perfetta sintonia di vedute che esisteva in quegli anni fra i due.
Nelle caratterizzazioni dei diversi popoli, qualcuno volle leggerci comunque un razzismo indotto (secondo il Krakauer, Alberico sarebbe addirittura una precisa e  chiara “espressione” di antisemitismo dichiarato), una considerazione questa che avrebbe fatto accomunare l’opera a un certo tipo di film definito impropriamente “di regime” (sic) senza minimamente prendersi la briga di soffermarsi a comprendere (o forse adesso si potrebbe meglio dire “AMMETTERE”) il suo valore espressivo e la forza  contaminante della sua creatività, cosa che invece fu singolarmente da subito  intuita (ed entusiasticamente  sostenuta) da qualche suo contemporaneo/a più illuminato/a, come Germaine Dulac, che con acuta intelligenza critica,  anticipando alcune tematiche esposte proprio dalla Eisner nel suo libro, tendeva a riallacciare non solo il film, ma anche il fenomeno dell’espressionismo stesso, a quelle profonde sorgenti che alimentano l’anima germanica e sono una costante della sua “spiritualità diffusa”  dalle quali sgorgarono anche le correnti del romanticismo   e del kammerspiel, appunto.
Alla luce di questa particolare concezione (che ritengo molto calzante) credo che sia possibile rileggere l’opera di Lang di quegli anni,  e prodotta dunque  in pieno  O Mensch Periode, come un significativo ritorno al classico, o meglio “all’immortalità del mito” (e I Nibelunghi ne rappresentano l’elemento più importante) proprio nella fase più acuta dell’urlo espressionista  e nel momento più critico del totale sovvertimento dei valori che avrebbe poi portato a quelle tragiche conclusioni che tutti conosciamo.
Tornando al film, e per marcarne ancor di più le differenze, la prima parte del dittico  (La morte di Sigfrido) segue le vicende assai note dell’ormai classica leggenda: l’educazione di Sigfrido presso il nibelungo Alberico, la lotta e l’uccisione del drago, l’arrivo dell’eroe alla corte di Gunther re dei Burgundi, ed infine le vicende che attraverso l’amore per Crimilde e le trame di Hagen e Brunilde, lo condurranno alla morte per mano proprio del traditore Hagen. Conforme al tessuto fantasioso della vicenda (Lang realizzò le due parti utilizzando giustamente stili fra loro molto differenziati) la realizzazione si appoggia così su un ambizioso impiego di monumentali scenografie, ampie e simmetriche – ed è per questo aspetto forse quella più “espressionista” in senso lato – dove gli attori compiono movimenti misurati e funzionali all’ambiente, agendo però come elementi non subordinati alla composizione figurativa che di solito piegava invece tutto il resto ai propri prioritari voleri espressivi. I richiami iconografici di riferimento, sono in ogni caso facilmente rintracciabili nella pittura di Böcklin oltre che nel teatro di Max Reinhardt.
La seconda parte (La vendetta di Crimilde) abbandonando invece la più pura tradizione germanica del mito, ha i suoi ascendenti di riferimento in successive leggende, che vedono Crimilde,  nel frattempo diventata sposa di Attila, impegnata a portare a termine la sua personale punizione verso gli assassini di Sigfrido, fra i corruschi bagliori di reiterati incendi che si concludono con il crollo del palazzo in fiamme di Attila, disintegrato e travolto dalla furia invasata della vendetta espiatrice. La stilizzazione del primo capitolo cede così il posto al dinamismo dei movimenti, mentre la fermezza dell’epopea burgunda viene plasticamente contrapposta alla selvaggia e forsennata mobilità delle orde unne, in un panorama non più magniloquente di costruzioni, qui di stile più orientale, che sono questa volta basse, anguste e tutt’altro che solenni).
Già da questa prima sintesi, saltano dunque subito all’occhio le notevoli differenze che nettamente caratterizzano il film di Lang rispetto alla partitura musicale di Wagner: la complicata e complessa vicenda del tesoro dei Nibelunghi – l’oro maledetto strappato alle figlie del Reno – frammista a quella dei Velsunghi infatti, in Lang diventa molto meno preponderante,  e anche il rapporto base Sigfrido-Crimilde, da eroico/divino come nell’opera, acquisisce una dimensione più dichiaratamente umanizzata, tanto è vero che nel film il crollo finale degli eroi e degli dei,  non è così universale e definitivo (lo si può definire un Götterdämmerung in tono minore), visto che il fuoco purificatore questa volta non distrugge il Walhalla, ma solo il palazzo di Attila, e quindi il “crepuscolo”, se così vogliamo continuare a chiamarlo, e la caduta conseguente, è solo degli uomini e non degli dei.
Se comunque nonostante quanto sopra evidenziato si vuole continuare a trovare ad ogni costo qualche frammento più corrispondente alla vena wagneriana, questo allora non è certo riferibile alla Tetralogia (a parte l’esteriore analogia della vicenda), ma bensì al ben più tardivo Parsifal e al suo intreccio di sapore proto-cristiano, del quale si potrebbe trovare traccia, per esempio, nelle straordinarie sequenze della veglia del corpo di Sigfrido dentro la cattedrale di Worms.
In ultima analisi dunque, nel film di Lang solo i grossi meccanismi di cartapesta della Ufa  (le comunque stupende scenografie di Hunte, Kettelhut e Vollbrecht)  denotano semmai il marchio di un ipotetico wagnerismo deteriore, ma diventato di maniera solo successivamente, in alcune produzioni Bayeureuthiane messe in piedi a partire dagli anni ’50, e non è certo attribuibile a Lang la responsabilità di essere stato “formattato” il concetto spettacolare del film ad uso e consumo delle parate hitleriane di cui la famosa casa tedesca sembrava essere la depositaria esclusiva del copyright.
Esaminati gli inesistenti (indiretti) rapporti fra Lang e Wagner, restano da studiare (e da smontare) quelli (in un certo senso consequenziali) che lo avrebbero legato in qualche modo per lo meno con quest’opera, all’ideologia nazista (delle cui parate secondo alcuni, il film si farebbe appunto anticipatore), non ritenendo sufficiente a mio avviso,(come fa invece il Krakauer) a sostenere e mantenere in piedi questa azzardata tesi, il rintracciare la evidente corrispondenza iconografica rilevabile dal confronto diretto di una particolare inquadratura de I Nibelunghi con l’altra, esteriormente analoga, contenuta ne Il trionfo della volontà di Leni Riefensthal dichiarata e convinta - lei sì - apologa  celebrativa del nazismo.
Se come si è visto, per controbattere l’assurdità di una tesi molto difficile da  sostenere come questa, non fosse sufficiente (bastevole) opporre in contrapposizione le scelte di vita di Lang che lo portarono a una precipitosa  fuga dalla Germania e la sua successiva attività di regista in America, si dovrebbe allora trovare il coraggio critico per riesaminare con più oggettiva lungimiranza tutta l’intera parabola del cinema espressionista, poiché se si dovesse ampliare l’assioma Espressionismo cinematografico = nazismo, e si tentasse semplicemente di provare a ripetere tale assonanza per tutte le altre, molteplici espressioni artistiche legate al movimento, salterebbe subito chiara allo sguardo la fallacità faziosa di una siffatta affermazione. Non credo infatti sia in qualche modo possibile  affermare cose similari per esempio per quanto riguarda la musica, la pittura  e soprattutto il teatro espressionista, i cui esponenti furono spesso in prima linea non solo nella lotta culturale di contrapposizione, ma anche in quella più dichiaratamente politica e di opposizione al sistema (e prima o poi  molti di loro pagarono addirittura di persona il loro impegno, come accadde per esempio a Ernst Toller, e basterebbe semplicemente una lettura delle sue opere da “Oplà, noi viviamo” – per altro magnificamente messa in scena proprio ad uso politico da Erwin Piscator, che nelle sue note di regia dichiarò: Mi sono già espresso altrove sul compito che io attribuisco all’attore nel quadro del teatro rivoluzionario. “Oplà, noi viviamo!” ne è un esempio fondamentale. Qui le parti contrastano in modo stridente  secondo le classi che rappresentano: il gruppo dei proletari coscienti, il tipo del funzionario di partito che ha fatto carriera impersonato da Kilman, il ceto dei nuovi ricchi, il gruppo dell’”ancien régime, della vecchia nobiltà personificata dal Conte Lande e dal Barone Friedrich. Qui veramente ogni parte è l’espressione incisiva di un ceto sociale. Non il carattere privato, non il complesso individuale danno la nota, ma il tipo, il rappresentante di un’idea sociale ed economica ben determinata (…) Il compito degli attori è dunque ben designato. L’interprete di ogni personaggio deve sentirsi coscientemente il rappresentante  di un determinato ceto sociale ed agire in conseguenza. (…) Mi ricordo che durante le prove, gran parte del tempo fu impiegato proprio per spiegare ad ogni attore il significato politico del dialogo. Solo dominando spiritualmente l’argomento, l’attore poteva infatti rappresentare sostanzialmente la sua parte – a “I distruttori delle macchine”; da “Uomo massa” a “Hinkemann”  per comprendere appieno la portata ideologica del discorso portato avanti in questo settore. Uomini insomma che non si limitarono al contributo artistico, ma che diedero corpo e sangue ai noti tentativi rivoluzionari della repubblica di Weimar, oltre che ai moti spartachisti, e che  non sono certo sospettabili di simpatie dittatoriali imparentate col nazismo…
Quindi l’espressionismo in toto (e perché non includerci anche il cinema?) per il suo profondo impegno morale e umano, è da considerarsi semmai  come l’estrema e più avanzata propaggine del romanticismo tedesco, purtroppo perdente, ma fortemente idealizzato. Tanto varrebbe allora condannare consequenzialmente, se si insistesse nell’equivoco,  tutta l’espressione compreso quella del romanticismo (in una parola, l’intera Weltanschauung tedesca), quale causa primaria  dell’avvento del nazismo… il che  (il solo ipotizzarlo, intendo) sarebbe davvero – concedetemelo!! fortemente azzardato e improbabile.
No, davvero in questa analisi si deve per forza stare dalla parte della Eisner forse ancor più autorizzata e competente del Krakauer – e senza nulla togliere a quest’ultimo -  a esprimersi con cognizione di causa, sulla materia  per la profonda conoscenza che aveva del cinema di quel periodo e per la sua vigile sensibilità verso la cultura tedesca in toto.
E’ semmai allora il manifestarsi aberrante di quel complesso comportamento morale e politico, religioso e artistico che costituisce la base dell’anima tedesca e la definisce col suo rigidismo dogmatico intriso di intransigenza razzista,  e il suo deteriore nazionalismo, ad avere purtroppo in se i semi del fenomeno, al quale semmai ha cercato (inutilmente) di fare da contraltare esorcizzante proprio la Stimmung espressionista, così umana  e disperata, così conseguente e sincera pur nelle sue contrastanti manifestazioni oscillanti in una gamma infinita di sfumature che variano dal tragico al demoniaco, dall’intransigenza formale all’appassionato egualitarismo sociale, per arrivare alla fine a dover constatare la drammatica evidenza che quel baldanzoso senso rosenberghiano della razza, della cui superiorità proprio da Hegel a Nietzsche avevano avuto garanzia e che d’altronde, era stato amaramente smentito dalla tragica evidenza del dopoguerra, col disastroso crollo del marco e con la conseguente corsa alla paura, era approdato alla definizione certamente di un superuomo, ma in senso negativo, poiché il superuomo vagheggiato da Nietzsche si era tramutato in Hinkemann, il mutilato immortalato da Toller (mutilato nel sesso e nell’orgoglio), che dell’antica efficienza conservava solo una pallida traccia nell’aspetto esteriore.
Fino a questo punto del discorso ho comunque fatto mio il concetto che I Nibelunghi sia da considerare a tutti gli effetti un film espressionista, nonostante che l’apparenza figurativa dell’opera sia davvero del tutto lontana dal calligarismo di stretta osservanza, ammettendo implicitamente e quasi a volermi giustificare, che “ho creduto impropriamente” possibile di poter classificare (per mancanza di fantasia, per omologazione) “espressionista” anche il film di Lang in quanto, andando oltre l’apparente diversità di tecnica e di indirizzo scenografico, questo mi sembrava potesse comunque condividere lo stesso comune spirito animatore della poetica espressionista, visto che  per l’artista espressionista, l’universo circostante è costantemente animato da una “spiritualità diffusa” che penetra violentemente nella materia  e la fa schiava delle leggi stesse dello spirito.
Proviamo invece per un attimo ad andare un pò oltre a questa ingabbiatura che al film sta decisamente stretta (stava stretta anche al regista, e non solo per quest’opera), poiché oggettivamente  il mondo figurativo  e poetico di Lang, così come quello interiore, è saldamente costruito e si ambienta in un universo sì ben ordinato, ma che è decisamente antitetico alla fantasmagoria di linee contorte, caratteristica preponderante (e limitativa) di quella corrente, e va ben oltre ad essa, articolandosi in molteplici direzioni, grazie all’impressionante compattezza di una sorprendente unità stilistica attraversata da una monumentale visionarietà creativa piena di straordinarie figurazioni.
Espressionismo e non solo dunque, perché se anche ne I Nibelunghi  è ben chiara e riscontrabile l’evidenza del concetto di paesaggio impregnato d’anima, ovverosia di quel Landschaft mit Seele di cui parlavano Kurtz (Expressionismus und film) e Kalbus (Vom Werden Deutscher Filmkunst), contrassegno tipico della spiritualità espressionista che della sua intensa ed “urlata” umanità  voleva pervadere il mondo circostante, è anche vero però che, come scrive la Eisner (alla quale va il merito di avere fatto per prima chiarezza assoluta su questi concetti fondamentali), L’expressionnisme construit son univers, il ne s’adapte pas par la compréhension à un monde  déjà existant… e allora non possiamo che osservare le differenze fondamentali che mi portano (presuntuosamente) persino a contraddire (riferendomi ovviamente a quest’opera) ciò che sosteneva Béla Balàzs quando parlava di occhi del paesaggio, o affermava che l’espressionismo accentuava la fisionomia latente  di un oggetto (Der Sichtbare Mensch oder die Kultur des Films), ed anche Kasimir Edschmild, convinto assertore della dittatura dello spirito sull’universo circostante ed esaltatore dell’attitudine della volontà costruttiva (Über den Expressionismus in der Literatur), poiché a mio avviso sono invece costanti dello spirito tedesco e quindi dirette propaggini della più vitale tradizione romantica “a prescindere”, come dimostrano chiaramente l’universo ossessionato di Hoffmann, le file di case contraffatte degli incubi di Ludwig Tieck, e gli oggetti animati di Jean Paul. Per ciò che riguarda lo spirito tedesco quindi – possiamo dire con Novalis – ogni paesaggio è il corpo idealizzato di una certa forma dello spirito, ed è chiaro allora che nemmeno I Nibelunghi sfuggono a questa poetica, ma con una differenza sostanziale, perché in questo caso la costruzione compositiva anche del paesaggio è improntata a una staticità al di fuori del tempo che è semmai  caratteristica proprio del mito, come appunto l’argomento stesso richiedeva, che in entrambi gli episodi riesce perfettamente ad animare dinamicamente le scenografie dando al film una forma del tutto innovativa, dove l’elemento figurativo viene asservito a quello drammatico e non viceversa e risulta impregnato alla stessa volontà creatrice quasi rivoluzionaria che lo ha ispirato.
Concludendo, si può dire allora che  andando ben oltre l’espressionismo, ne I Nibelunghi  la  fissità stessa del mito, il volere del fato ormai irrimediabilmente compiuto, richiedevano un estremo rigore costruttivo e questo si è mantenuto immutato e conforme, ma solo in apparenza, dando al film una concezione rappresentativa del tutto nuova, ma assolutamente coerente. Si può pertanto parlare in questo caso,  non tanto di  “un decorativo che schiaccia l’umano”, quanto invece di un totale inserimento dell’umano nel decorativo, sottolineando però che è appunto quest’umano, una volta tanto, che dirige e coordina gli elementi scenografici e compositivi, siano essi attori, costruzioni, o materiale luminoso, in una precisa simbologia figurativa (il pensiero creativo che domina la forma) il che dimostra quanto sia superficiale e limitativo per non dire impossibile, il volersi per forza ancorare nel giudizio a uno “schema” precostituito, soprattutto quando questo risulta oggettivamente insufficiente a contenere tutti gli stimoli e la materia propulsiva che è stata messa  in movimento.

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