Regia di Andrzej Zulawski vedi scheda film
La vita e la morte sono contagiose. Si trasmettono attraverso il sangue, che viene succhiato con avidità, e prodigalmente sparso. Michal nutre i pidocchi. Se li fa applicare sul corpo, dietro compenso, perché così prevede il procedimento per la produzione del vaccino contro il tifo. I nazisti hanno occupato la Polonia, e quello è ormai il lavoro più numerativo. Senza contare che è anche la rappresentazione metaforica di ciò che sta accadendo tra gli uomini: un massacro universale, come quello descritto nell’Apocalisse. La madre di Michal, suo figlio Lukasz e la moglie Helena sono stati barbaramente uccisi dagli invasori. Sono iniziate le deportazioni di massa e i genocidi. Michal sopravvive, ma questa è la peggiore delle condanne. Di fronte a tanto orrore, ci si può chiudere in casa, in mezzo all’astrazione dell’arte e nel rifugio dei ricordi, come fa suo padre, oppure continuare, nonostante tutto, a girare per il mondo, incontrando ovunque le familiari immagini del dolore, riproposte impietosamente all’infinito. Là fuori, la cultura è morta, e l’uomo ha cessato di essere importante. Esistono solo gli opposti poteri che si combattono eliminandosi a vicenda. Ed i poveri diavoli che si vendono per andare avanti, che si fanno mangiare dai parassiti per poter a loro volta mangiare. La carne è il caduco contenitore del ciclo della creazione/distruzione, che altro non è che una primitiva catena alimentare. Niente scompare per sempre, perché tutto ritorna ad alimentare quell’incessante macinio. Persino coloro che sono morti riappaiono, come nuove anime e nuovi corpi, per trattenere i vivi nella prigione di quell’ingranaggio. Michal, in un modo misterioso, ritrova Lukasz ed Helena, ed è costretto a ricominciare daccapo il suo penoso sacrificio d’amore. La malattia recentemente contratta lo ha reso immune, e quindi egli è destinato a continuare a fungere da terreno di coltura alla Rickettsia, il batterio mortale che ha falciato tante vite, ma non la sua. Lui stesso è diventato il morbo, che resiste e procrea per consentire alla morte di perpetuare la sua funesta missione. La sua presenza ne preannuncia il passaggio: è il seminatore di un’epidemia che non risparmia niente e nessuno, tranne la sua interminabile sofferenza, a cui non è concessa alcuna tregua. La realtà diventa inquietante nel momento in cui si sottrae all’azione regolatrice della natura, che, in condizioni normali, cercando di mantenere il proprio equilibrio, esercita anche una funzione mitigante sugli effetti del male. Questo beneficio viene meno in una terra scorticata dalla guerra, in cui si è avverata la visione contenuta nel Libro della Rivelazione, e citata ripetutamente nel film: E il primo angelo sonò; e venne una gragnuola, e del fuoco, mescolati con sangue; e furon gettati nella terra; e la terza parte della terra fu arsa; la terza parte degli alberi altresì, ed ogni erba verde fu bruciata. Poi sonò il secondo angelo; e fu gettato nel mare come un gran monte ardente; e la terza parte del mare divenne sangue; e la terza parte delle creature che son nel mare, le quali hanno vita, morì; e la terza parte delle navi perì. Poi sonò il terzo angelo; e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia; e cadde sopra la terza parte de’ fiumi, e sopra le fonti delle acque.
Il senso della fine è la perenne inquietudine degli elementi, che continuano a mescolare le loro sostanze in un turbinio infernale, in cui, come nella perversa simbiosi tra Michal e gli animaletti che gli vengono attaccati alla pelle, la linfa vitale scorre da un capo all’altro, trasportando l’infezione. Germi ed anticorpi si generano ed annientano reciprocamente, la febbre va e viene, e, in quella brulicante popolazione di microrganismi, il bilancio dei nati e dei morti è invariabilmente in pareggio. In questa storia l’ossessione non è incubo, bensì l’essenza stessa dell’umanità, in cui l’individuo è continuamente costretto a specchiarsi, vedendosi, alternativamente, malato e guarito, morto e risorto, rincorrendo eternamente una salvezza che è solo un’interminabile agonia: una lotta sempre vincente, che rinvia sine die l’incontro con la liberazione finale. La terza parte della notte è la tortura derivante da un inferno che lambisce l’individuo, circondandolo di un incendio che consuma progressivamente la realtà circostante, senza mai arrivare a bruciare lui. Una crudeltà procrastinata, minacciata e mai messa in pratica, che, sadicamente, si compiace di farsi guardare con un misto di speranza e di terrore, e certamente non vuole spegnere gli occhi che, dall’abisso della paura, ne testimoniano l’invincibile potenza.
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