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L'uomo che ho ucciso

Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che ho ucciso

di EightAndHalf
9 stelle

Il primo Dopoguerra era un filo teso come una corda di violino, costretto da una prima guerra mondiale distruttiva e dal sentore di una seconda guerra. Sulla scia di All Quiet on the Western Front di Lewis Milestone, ma, se vogliamo, anche sull'onda dei Persiani di Eschilo, Lubtisch guarda alla sua vicenda dal punto di vista dei nemici per eccellenza durante la Grande Guerra, i tedeschi, e lo fa con grande parsimonia e umanità. Molti hanno accusato Broken Lullaby di scivolare nel melodrammatico, ma la realtà è che Lubitsch realizza un quadro appassionato e appassionante di esseri umani dai sogni infranti e dalle promesse smentite, individui costretti a rivedere la propria coscienza e ad affacciarla su un futuro che non si preannunciava per nulla prospero. Mentre la Germania subisce con sofferenza la presenza in madrepatria dei soldati polacchi, e le ingerenze che le impongono le potenze vincitrici, un uomo, interpretato da uno spaurito Lionel Barrymore, decide di andare a trovare i familiari di un uomo che uccise durante la guerra di trincea, e a causa del quale ha maturato un profondo senso di colpa. Pronto ad espiare andandosi a confessare con il padre del morto (in cui potrebbe seminare il germe del nazionalismo), la madre, e addirittura la fidanzata, che finirà per innamorarsi di lui, il protagonista finisce per raccontare la bugia di essere stato amico del deceduto, e sebbene si dichiari francese (dunque nemico giurato), viene accolto e riverito.

 

locandina

L'uomo che ho ucciso (1932): locandina

 

Le conseguenze dell'eventuale scoperta della verità le si lasceranno agli spettatori che non hanno avuto il piacere di visionare questo splendido film dalle tinte profondamente tristi ma anche spettacolari, capace di comunicare con l'immagine (splendido l'incipit e il suo montaggio), con i dialoghi (talvolta effervescenti, talvolta strazianti) e con gli sviluppi della vicenda, che, vista anche l'esigua durata di un'ora e un quarto appena, finisce ancor prima di iniziare lasciando un forte senso di dispiacere. Anche se il carattere sintetico della regia di Lubitsch (conciso ma raffinato come al solito, e come avrà modo di dimostrare anche con il suo cinema successivo) è certamente un punto a favore nel promuovere questo suo Broken Lullaby, a intervenire è soprattutto il finale, l'emblema stesso del perdono e del sacrificio. In un dramma perfettamente umano, Lubitsch sconfigge le difficoltà della contestualizzazione storica e sa denotare, appena otto anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il carattere disumanizzante e inutile della guerra, soprattutto alla luce di un'uguaglianza che ribadisce più volte con l'arma dell'acida ironia (il dialogo di due madri di fronte alla tomba del figlio di una di queste è un capolavoro di convivenza di umorismo e tragicità).

Dunque, un film profondo, molto stratificato e lontano da qualsiasi pregiudizio, ingenuità o generalizzazione: anche la Chiesa, nel primo dialogo, ne esce male, così come il mondo tedesco più razzista e conservatore. Ma non ci sono vincitori e vinti, "tutti i genitori hanno festeggiato per la morte del figlio di qualcun'altro", e il circolo vizioso dei drammi umani terminerà alla fine con una terribile e salvifica utopia, incapace di salvare qualcuno, se non con l'arma dell'illusione.

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