Regia di John Hughes vedi scheda film
Quale modo peggiore esiste per far lievitare esponenzialmente l’immancabile dose di “strabismo cognitivo” che affligge, volenti o nolenti, le fragilissime menti di (quasi?) tutti gli adolescenti di quello escogitato dal preside Vernon/P. Gleason? Una convivenza/prigionia lunga una giornata intera, da trascorrere rigorosamente entro le mura di una (comunque spaziosa) biblioteca, metterebbe a dura prova finanche la più timida ritrosia di un teenager qualsiasi, figuriamoci nel caso di cinque giovani (non gli attori, però) malcapitati studenti in questione, fedelissimi rappresentanti di tutte le anime del mondo studentesco.
Capita, quindi, che un campionario dei più fulgidi stereotipi studenteschi venga rinchiuso in una metaforica pentola a pressione e portato ad ebollizione, fino a che rabbia, disincanto, fobie, malesseri, pulsioni, dilemmi vari e sentimenti tutti non esplodano in un’euforia vivacissima (non mancano i momenti di ballo sfrenato) e (manco a dirlo) neppure lontanamente catartica. All’uscita dalla scuola, le strade rifuggono l’odioso punto di convergenza seguendo direzioni opposte molto simili a quelle iniziali, con la promessa, a parole, che un pomeriggio di convivenza forzata non inciderà affatto sui propri sviluppi esistenziali, ma, altresì, con l’auspicio che questi ultimi non vengano menomati dalla distorta “educazione” dei propri padri. Non più, quantomeno.
Nobili, forse, dovevano essere le intenzioni del regista-sceneggiatore J. Hughes, ma, a me, questo Breakfast Club è apparso alquanto fumoso (ergo, di difficile comprensione), quando non anche dalla profondità affettata. Soprattutto, estremamente arduo ho trovato il riuscire a solidarizzare con i protagonisti, “oggetti” misteriosi, sottoposti ad una seduta psicoanalitica “bidimensionale” che analizza (a dir poco) con l’accetta i classici problemi che scuotono l’universo giovanile. Praticamente, un invito alla sagra dello stereotipo, alla quale io (ospite da subito curioso, poi, presto, diffidente) non mi sono affatto sentito a mio agio (ma, certo, la mancanza, nelle nostre scuole, dei leggendari armadietti scolastici multi-uso tipici di ogni high school americana rende alquanto proibitivi gli sforzi di immedesimazione).
Del finale condivido, nondimeno, lo schietto realismo. I buoni propositi restano chiusi nel cassetto; tutto rimane come prima e le pie speranze di un futuro migliore non possono che risultare appena accennate (stante l’immanente caducità che le caratterizza).
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