Regia di John Carpenter vedi scheda film
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
La visione di questo film mi ha riportato in mente questa poesia di Pascoli, autore da me molto amato ai tempi studenteschi per la sua essenzialità comunque carica di significati, qualità applicata anche da John Carpenter nel dirigere (quasi) tutte le sue opere cinematografiche. Una delle eccezioni è questo lavoro horrorifico introdotto, invece, da un lungo e necessario prologo utile a creare la giusta tensione e inquietudine sui successivi sviluppi narrativi; anche in tale caso, comunque, la misuratezza di Carpenter è proverbiale: mai un’inquadratura di troppo, zoom veloci e primi piani ridotti all’essenziale, in favore di vivide visioni d’insieme. La storia di fantasmi in cerca di vendetta riporta all’infanzia, alle storie raccontate intorno al fuoco nelle lunghe serate buie (vgs. l’incipit del film) per provocare brividi e notti insonni a poveri bambini impressionabili, nonché alla tragedia greca classica (pre “Orestea” di Eschilo) con le colpe dei padri (o di una comunità) che ricadono sempre sui figli o discendenti. La sensazione di claustrofobia, quasi assurda se consideriamo l’ambientazione isolana (luogo aperto per eccellenza), è resa in maniera magistrale, con una nebbia soffocante e luminescente che si insinua in ogni dove, senza offrire scampo o riparo alcuno; la rappresentazione dei dannati vaganti nella nebbia in cerca di vendetta, fra l’altro, sembrerebbe aver ispirato il Michael Mann (o Enki Bilal) del mediocre “La fortezza” (1983), per la sua resa della creatura. Gli attori sono credibili e riescono a trasmettere la giusta sensazione di ineluttabilità tipica degli horror, senza proporre interpretazioni magistrali ma con un risultato collettivo convincente, persino per un’imberbe (ma già avvenente) Jamie Lee Curtis, qui insieme alla madre. Particina per Darwin Joston, il Napoleone di “Distretto 13 – Le Brigate della Morte”.
Dannata.
Solida.
Convincente.
Fanciullesca.
Evocativo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta