Regia di William Lustig vedi scheda film
Dichiarandomi fin da subito il bastian contrario nei confronti dei molti (a mio modo di vedere troppi) che hanno innalzato “Maniac” a cult movie, vorrei spiegare le ragioni di tale dissenso.
Esse sono in gran parte legate al concetto di “violenza gratuita”, per (s)cadere nella quale vi è un confine labile, sottilissimo, quasi impossibile da mettere nero su bianco, ma rispondente a parametri visivi, e conseguentemente avvertibile “a pelle”. Trattasi di un concetto strettamente legato a quello di “volgarità”, perché la violenza gratuita è sempre (e dico sempre) soprattutto qualcosa di volgare.
“Maniac” è un film deforme, il mero ritratto di una mente malata che non si fa però specchio di incubi quotidiani o inconsci, ma viene contestualizzata in un’ambientazione urbana che tenta invado di farsi prolungamento visivo di questa schizofrenica deviazione mentale.
In costante bilico tra l’espletamento del genere puro e il tentativo di scavo psicologico nell’unico vero personaggio presente, il film collassa. Ed è proprio questa costante e irrisolta sospensione a decretarne il fallimento.
Non c’è partecipazione emotiva (perché il seppur debolissimo ritratto del protagonista è delineato in modo tale da risultare volutamente refrattario a qualsiasi immedesimazione) né coinvolgimento, non vi è piacere ma solo disgusto.
Una pellicola del tutto priva di fascino, titubante e perversa (nel senso deleterio del termine).
“Maniac” si trova in stretta sintonia non tanto col marciume urbano che forse vuole rappresentare, bensì con i manichini che circondano l’assassino, i quali finiscono per essere proprio come il film: freddi, insignificanti e senz’anima.
Così come l’altrettanto trascurabile remake.
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