Regia di Edgar Reitz vedi scheda film
E bravo Edgar Reitz! L’essere riuscito nell’ardua impresa di conferire dignità e prestigio all’aborrita “fiction televisiva”, vero e proprio incubo per ogni cinefilo che si rispetti, non è certo impresa da poco se solo ci soffermiamo ad analizzare tutti i guasti da essa procurati al cinema italiano per mezzo delle numerose propaggini cinematografiche che continuano ad espandersi, arrivando ad invadere anche quei sacri lidi del festival veneziano che proprio nel lontano 1984 tennero invece a battesimo l’indimenticabile saga della famiglia Simon. Prima parte di un progetto monumentale d’immane portata, a tutt’oggi arricchito di due sequel per un totale di trenta capitoli, Heimat ci restituisce il potere (ri)evocativo ed immaginifico del cinema e va assaporato come un vecchio vino d’annata prezioso e profumato, da centellinare fotogramma per fotogramma fino all'ultima goccia, facendoci trasportare non tanto dal serpeggiante susseguirsi di avvenimenti narrati con un asciutto vigore lontano anni luce da qualsiasi tono di enfasi melodrammatica quanto da quel suo fascinoso sapore d’epoca rivissuta alla luce di una contemporaneità tutta tesa in direzione di una più coerente ed obiettiva reinterpretazione di fatti e misfatti di non vetusta memoria, da contemplare con animo sereno e compassato spirito autocritico onde riappropriarsi debitamente della propria memoria collettiva
Certamente non si può non rimanere ammaliati dall'esclusivo fascino e dell’alta carica drammatica che sprigiona talvolta dal cuore stesso di un bianconero estremamente essenziale che nel suo cogliere l’arcana essenza del flusso di stagioni ormai remote declina alla perfezione le atmosfere retro rivisitate con sensibilità ed estremo senso della misura, un bianconero sostituito a tratti da barlumi di morbide e calorose tonalità coloristiche che sprizzano come raggi di tiepido sole in una giornata d’intenso chiarore invernale e che dal nono episodio in poi prenderanno il controllo pressoché totale della situazione.
L’opera di Reitz, firmatario nel 1962 di quel “Manifesto di Oberhausen” da considerare come il punto d’avvio del “Nuovo cinema tedesco” che annovera tra le sue file nomi di spicco come Wenders, Herzog, Fassbinder e Schlondorff, è da considerare come un omaggio dell'autore alle suggestioni ed ai profumi del “luogo natale e di residenza, paese d’origine e casa paterna” (definito da Ernst Bloch come "Il regno delle brame e delle nostalgie, dei desideri e dei bisogni, la grande miniera della prassi non ancora addomesticata, IL LUOGO DEL DESIDERIO NON ANCORA ESAUDITO”), vero ed unico protagonista di una torrenziale cronaca che nella sua prima parte abbraccia un periodo di tempo molto esteso, dal 1919 al 1982 con una serie interminabile di interpreti.
Reitz arriva a frugare in gran segreto fin nel profondo dei suoi personaggi, come una recondita presenza celata nell’ombra, filtrando con l’intensità del suo sguardo i meccanismi vitali di una narrazione che per forza di cosa procede in maniera fortemente ellittica, ma in cui ogni minimo avvenimento sembra scaturire in maniera naturale davanti allo spettatore che viene così elargito di un esaustivo spaccato di vita nel suo incessante fluire attraverso le volute del tempo.
In “Heimat” pulsa il cuore della Germania moderna, restituita alla vista attraverso gli occhi della tradizione con una nuova ed inedita sensibilità, grazie ad un tocco autoriale che trasforma una materia prevalentemente intimista e tutta circoscritta nella sfera del privato in una cronaca palpitante ed a tratti intrisa di visionarietà, che acquisisce una decisa valenza universale lasciando già presagire la fine dell’agonia del popolo tedesco e la riunione con i fratelli (non più) separati al di là del muro.
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