Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
Uno dei migliori film di Wajda, giudicato in maniera estremamente positiva da Paolo D'Agostini nella sua monografia sul regista. Tratto da racconti di Tadeusz Borowski, uno scrittore polacco che era sopravvissuto ai campi di concentramento di Auschwitz e Dachau, ma in seguito si suicidò a soli 29 anni nel 1951, il film segue le vicende di un giovane intellettuale (in cui naturalmente è adombrato lo scrittore) che, insieme, ad altri prigionieri, abbandona il campo di concentramento ma si ritrova a fronteggiare un futuro incerto. Incapaci di tornare in patria, i sopravvissuti accettano sistemazioni provvisorie in campi profughi attraverso la Germania, indotti dalle tante privazioni a comportamenti spesso discutibili ed eccessivi. Fra questi prigionieri, Tadeusz stringe un legame affettivo con Nina, un'ebrea sopravvissuta, ma le ferite della guerra sono troppo profonde per permettere che il loro amore sopravviva. Bellissima la sequenza iniziale della liberazione dalla prigionia dei sopravvissuti, ma vi sono diversi momenti di forte spicco e di intensa drammaticità. Wajda riflette sui traumi di una generazione vittima della ferocia nazista, sull'angoscia e l'alienazione che colpì queste persone alla fine della guerra, ma lo fa lasciando parlare le immagini, senza inutile enfasi e didascalicità. Come sottolinea D'Agostini, le altre sequenze memorabili sono quelle della passeggiata solitaria di Tadeusz e Nina, il momento dell'uccisione di quest'ultima e la scena all'obitorio, ma il film colpisce nel complesso per la sua cognizione del dolore espressa in termini mestamente elegiaci. Daniel Olbrychsky, attore preferito del regista, è molto sensibile e adatto alla parte, bravi anche tutti gli altri (fra cui si nota Aleksander Bardini, attore caro al Kieslowski del Decalogo). Sulla base di questo film e Cenere e diamanti, mi sono fatto già un'idea dell'importanza dell'opera di Wajda. voto 9/10
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