Regia di Peter Watkins vedi scheda film
Ai solitari che hanno ancora il coraggio di essere uomini(da Hiroshima, il giorno dopo di Robert Jungk – Traduzione di Giuseppina Panzieri Saija – Collana “Saggi”, Giulio Einaudi Editore – 1960)
The War Game(ovvero Il gioco della guerra) ma che io ho conosciuto a suo tempo col titolo italiano de “La posta in gioco”, è un interessante thrilling televisivo (potremo definirlo un’opera di fantascienza distopica realizzata come se si trattasse di un documentario, o meglio ancora, un “docudrama” che mi sembra molto più appropriato) commissionato dalla BBC a Peter Watkins[1] la cui programmazione in Tv a lavoro ultimato, venne però proibita perché ritenuto un film troppo realisticamente sconvolgente, e quindi “inopportuno” per il piccolo schermo. Fortunatamente dopo qualche peripezia e molti sforzi, riuscì invece ad essere distribuito nel circuito delle sale cinematografiche dell’Inghilterra dal British Film Institute, ed ebbe di conseguenza una successiva visibilità anche in altri paesi del continente europeo e americano, Italia compresa, dove fu proiettato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia del 1966 che aveva riservato quell’anno un’apposita piccola sezione dedicata alle migliori produzioni cinematografiche realizzate per la televisione, dove si trovò davvero in buona compagnia accanto a Francesco d’Assisidi Liliana Cavani e a La prise du pouvoir par Louis XIV di Roberto Rossellini, un successo internazionale che portò alla fine la pellicola - che nel frattempo era riuscita a dividere drasticamente pubblico e critica per la sua radicale visione delle cose ritenuta da alcuni (a mio avviso a torto) troppo apocalittica, a vincere anche un Oscar come miglior documentario.
La situazione immaginata dal telefilm inglese (che è necessario contestualizzare riportandoci col pensiero alla situazione geopolitica del mondo negli anni in cui è stato realizzato, e soprattutto al clima di tensioni internazionali e alle paure che queste suscitavano con la loro preoccupante instabilità sempre in bilico e lo spettro della bomba atomica dietro l’angolo) fu così descritta nel Catalogo ufficiale della Mostra di quell’anno: “Per appoggiare l’invasione del Vietnam del Sud da parte dei cinesi, i russi e i tedeschi dell’Est, come gesto di solidarietà, minacciano di occupare la Berlino Occidentale. Le forze della Nato tentano di liberare la città ma vengono respinte da forze soverchianti. Gli americani allora consegnano alla Nato armi tattiche nucleari.
In previsione di un attacco occidentale, i russi lanciano un certo numero di missili balistici a raggio intermedio contro obiettivi militari dell’Europa occidentale, e su aeroporti inglesi, ed è proprio sulla Gran Bretagna che ci si concentra, poiché l’azione del film è ambientata nel Kent, uno dei centri di evacuazione in caso di attacco nucleare.
Diviso in tre parti, nella prima assistiamo all’arrivo e alla sistemazione nei centri di accoglienza degli evacuati e alle preparazioni militari per far fronte all’atteso attacco nucleare.
Nella seconda parte, dopo che alcuni missili russi sono caduti fuori dagli obiettivi militari, si assiste ai terribili effetti conseguenti a queste vere e proprie esplosioni nucleari.
La terza parte descrive le prime 48 ore che immediatamente seguono le esplosioni e si confronta con la distruzione, l’esorbitante numero dei morti, e i successivi impotenti tentativi di far fronte alla situazione per tenerla sotto controllo e provare a combattere gli effetti delle radiazioni. Ci si sofferma poi ad analizzare la situazione a un mese dall’attacco con tutti i problemi dell’alimentazione, dell’acqua, delle malattie, della criminalità e delle radiazioni che stanno avendo effetti devastanti proprio nel lungo periodo.
Tutto questo – commenta il film – è ciò che potrebbe avvenire in Inghilterra in qualunque momento, anzi molte delle cose viste, sono già successe in altri posti durante la seconda guerra mondiale. Si tratta insomma di una drammatica ipotesi totalmente basata sulla realtà”.
“Hanno dovuto crearsi un modo di vivere adatto a tempi calamitosi, per rinascere una seconda volta, e lottare a viso aperto contro la distruzione all’opera nella nostra storia”. (dal discorso pronunciato da Albert Camus in occasione della consegna del premio Nobel).
Anche se l’impatto emotivo e politico è adesso meno perturbabilmente disturbante di quanto non lo sia stato invece negli anni in cui fu realizzato, devo dire che di fronte a questo breve film la cui durata complessiva non arriva ai 50’, si prova comunque ancora oggi un senso di sgomento e di rivolta non solo per la concentrazione dei tanti orrori che ci mette di fronte con la potenza espressiva della verità, ma anche per come viene articolato il discorso che invita a profonde riflessioni che vanno ben oltre la “contingenza” specifica di quei tempi.
La modalità scelta dal regista per la sua rappresentazione delle cose atta a demonizzare con la necessaria virulenza quella terribile forma di guerra sofisticata e ferale, si avvale infatti di uno stile che giustamente @EightAndHalf ha definito furibondo e sfrontato che non risparmia nulla alla visione: crudo e impietoso, persino irriverente in alcuni tratti, ma che certamente ha anche dato un qualche piccolo contributo a porre qualche freno (anche se il pericolo non è del tutto scongiurato) alla follia suicida di quegli anni.
Il grande fungo di nubi mi ha inghiottito
Non insista a guardare, signora Rooswelt:
per tutta la vita vivrò questa oscurità. (brano di una poesia scritta da un anonimo sopravvissuto di Hiroshima).
Parlavo di un senso di sgomento e di rivolta (che a mio avviso rimane immutato pure nel presente poiché il problema c’è ed è tutt’altro che risolto, pur essendo purtroppo diventato meno percettibile che in passato – almeno per quanto riguarda il rischio di una guerra atomica - e forse proprio per questo ancor più preoccupante, anche se facciamo finta di non pensarci, per l’imponderabilità dei tanti imprevisti giornalieri collegati alle centrali nucleari che spandono radioattività a piene mani, e dei quali credo che noi conosciamo solo gli avvenimenti più eclatanti come Cernobyl e Fukushima che continuano a seminare morti e deformazioni alle quali dopo l’impatto immediato degli eventi, prestiamo tutti, media compresi, un’attenzione di gran lunga inferiore e insufficiente, rispetto alla gravità della situazione): sgomento dunque proprio per l’incapacità che rileviamo nei governi, nelle istituzioni, di trovare soluzioni definitive atte a scongiurare definitivamente il rischio della distruzione progressiva dell’umanità provocata per stupidità e incoscienza; rivolta perché dovremmo essere più attivi nel difendere il nostro futuro se fossimo davvero consapevoli – cosa di cui dubito assai – del rischio che corriamo, compreso quello legato alle centrali nucleari ancora attive in giro per il mondo, e alla gestione e ai criteri di smaltimento (quelli sì davvero irresponsabili anche qui da noi) delle scorie che producono, ugualmente perniciose pere la natura, gli animali e l’uomo.
I pregi e i meriti di questo telefilm, oltre a quelli di fornire una seria informazione “documentale” sulle terribili conseguenze di una esposizione alla radioattività, stanno comunque anche e soprattutto nello “stile” della messa in scena, riguardano la “forma” e il “linguaggio” scelti dal regista, e nella “realistica spontaneità” dell’impostazione generale, molto lontana da tutti quegli arzigogolati tecnicismi che spesso servono solo a coprire il vuoto delle idee. Se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, potremmo solo osservare che rivisto adesso, risulta semmai troppo “tradizionale” nell’assunto, che se da un lato è il mezzo migliore per contenere tutto efficacemente concentrato nei tempi abbastanza limitati a disposizione, dall’altro può far correre il rischio di un eccessivo didascalismo a causa soprattutto dell’onnipresente voce “fuori campo” indubbiamente necessaria nel contesto, ma che avrebbe potuto essere un più “limata”, affidandosi maggiormente alla forza dirompente delle immagini che è già da sola, di straordinaria rilevanza esplicativa, grazie anche al suggestivo bianco e nero un po’ sgranato tipico dei documentari di qualità.
Watkins non ricorre infatti a nessun espediente “sovraesposto” o di maniera: per aggredire lo spettatore e renderlo consapevole, si limita infatti a metterlo di fronte alla implacabile “registrazione” dei fatti immaginati, comprese le loro tragiche conseguenze (non solo fisiche, ma anche psicologiche), a partire dalle reazioni dei sopravvissuti, costretti dal potere a una disumana quarantena che diventa una vera e propria prigionia, all’interno della quale al fine di mantenere l’ordine, vige una vera e propria legge marziale che spenge con la violenza e la condanna a morte per i casi più eclatanti di “disubbidienza”, ogni possibilità anche minima di “ribellione”.
Non soltanto sulla pelle
ulcerano le cicatrici,
assai più profonde sono le ferite del cuore.
Chi potrà guarirle? (brano di una poesia scritta da un anonimo sopravvissuto di Hiroshima).
Sullo schermo sfilano così le persone contagiate dalle radiazioni atomiche, mentre i medici che illustrano le spaventose condizioni degli assistiti che vediamo peggiorare giorno dopo giorno (la maggior parte dei quali destinati a soccombere nei mesi successivi) si alternano alle dichiarazioni che definire semplicemente “deliranti”, significherebbe ricorrere a un accomodante eufemismo, pronunciate da cattolici guerrafondai, politici privi di spessore e assistenti sociali che tentano di contenere l’inevitabile aggravarsi della paura atomica.
In tutto questo contesto, sono proprio le dichiarazioni delle autorità religiose che si confrontano e dibattono sulle posizioni delle varie chiese di fronte al conflitto nucleare, a fare maggiormente impressione. Manca infatti un netto rifiuto e una condanna, e tutti sembrano abbastanza concilianti: qualche vescovo parla di “guerra limitata”, altri di “monito per il futuro”, la maggior parte di “giuste rappresaglie”: anacronistici discorsi che stridono di fronte alla implacabile evidenza delle sconvolgenti immagini di una pellicola che risulta più veritiera del vero nella puntuale descrizione di una realtà, per fortuna solamente immaginata, che è indiscutibilmente un’ucronia[2] ma che si basa talmente su un reale (non c’è davvero niente da inventare, si sapeva tutto già allora) da non avere alla fine proprio nulla da spartire con la fantascienza o la fantapolitica (tanto è concretamente credibile nelle cause e gli sviluppi), da fare per questo ancora più paura poiché indirettamente ci racconta e ci fa vivere in diretta ciò che in altro contesto è davvero accaduto a Hiroshima e Nagasaki:
“Ho guardato la gente. Ho guardato io stessa, pensosamente, il ferro. Il ferro bruciato. Il ferro rotto, il ferro diventato vulnerabile come la carne, ho visto dei tappi metallici a mazzi: chi ci avrebbe pensato? Pelli umane svolazzanti, ancora vive nella loro sofferenza. Pietre. Pietre bruciate. Pietre esplose. Capigliature anonime. Le donne di Hiroshima, al mattino svegliandosi le ritrovavano così, intere, cadute. Ho avuto caldo in Piazza della Pace. Diecimila gradi su piazza della Pace. Lo so. La temperatura del sole su Piazza della Pace. (…) Ho visto i cinegiornali. Il secondo giorno, dice la Storia, non l’ho inventato io, fin dal secondo giorno, delle specie animali ben precise sono risorte dalle profondità della terra e dalle ceneri. (…) Ho visto anche i superstiti, e quelli che erano nel ventre delle donne di Hiroshima. Ho visto la pazienza, l’innocenza, la dolcezza apparente con le quali i provvisori superstiti di Hiroshima si adattavano a una sorte tanto ingiusta che l’immaginazione, di solito così feconda, davanti a essi si arresta.
Ascolta…
Io so…
E questo continua.
E per le donne c’è il rischio di partorire dei figli malformati, dei mostri. E questo continua.
Per gli uomini, il rischio di essere colpiti dalla sterilità.
E questo continua.
La pioggia fa paura.
Pioggia di cenere sulle acque del Pacifico.
Le acque del Pacifico uccidono.
Dei pescatori nel Pacifico sono morti.
Il cibo fa paura.
Si getta via il cibo di un’intera città.
Si sotterra il cibo di intere città… (Marguerite Duras, Hiroshima mon amour).
[1] Esponente solitario di un free cinema fortemente politicizzato Watkins si era già fatto apprezzare per Culloden (trasmesso in Italia con il titolo L’ultimo degli Stuart) – 1964, ricostruzione televisiva della battaglia di Culloden, appunto, strutturata sul metodo dell'intervista diretta alla storia, con sua conseguente smitizzazione. E’ più universalmente conosciuto comunque per il film Privilege girato nel 1967 con Paul Jones, Jean Shrimpton, Mark London e Max Bacon, feroce denuncia in anticipo sui tempi, dello sfruttamento del nuovo star-system (nella fattispecie un giovane cantante pop che alla fine si ribella al sistema) e del suo utilizzo “politico” come seduttivo “analgesico” per tenere buone e asservite le masse, che a suo tempo fece molto discutere. Altre pellicole da ricordare nella sua cospicua produzione soprattutto televisiva, I gladiatori (1968) nuovo fantascientifico excursus sul gioco della guerra ma in epoca di pace in questo caso; Punishment Park (1971), feroce apologo sulla repressione; Edvard Munch (1976), interessante ed esaustiva biografia sulla vita e le opere del pittore pre-espressionista norvegese, The journey, (1988) film spettacolare della durata fiume di 14 ore e La Comune (Paris, 1871) realizzato nel 2000..
[2] Ucronia: è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale (fonte Wilkipedia)
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